Per alcuni è un attestato d’onore di valore incalcolabile, per altri soltanto un pezzo di metallo: attorno ai quattro bracci della croce di ferro, decorazione militare istituita dal Re di Prussia ed ereditata dal Reich tedesco, Sam Peckinpah dipinge il suo provocatorio e disilluso affresco della meschinità, della brutalità e del coraggio dell’uomo. E si avvale di un punto di vista inusuale, spesso accantonato per scomodità storiografica, puntando la cinepresa sulle ultime propaggini dell’esercito nazista, impegnate nella rovinosa ritirata dal fragile fronte orientale. Tra le foreste della penisola di Taman, in Crimea, si articolano le vicende del plotone di esploratori comandato dal pluridecorato caporale Steiner, veterano disincantato da ogni retorica guerresca che, pur odiando profondamente l’uniforme della Wehrmacht, continua a combattere seguendo un personalissimo codice d’onore e di fedeltà ai propri uomini. Tuttavia, con la sua condotta spregiudicata e l’insofferenza verso gli ordini dei superiori, Steiner attirerà l’antipatia del capitano Stransky, rampollo di un’antica famiglia dell’élite militare prussiana appena giunto da Parigi con il preciso scopo di guadagnarsi, ad ogni costo, la croce di ferro. Pur di ottenerla Stransky, approfittando della confusione creatasi dopo un’arrembante offensiva delle forze sovietiche, cercherà con l’inganno di prendersi il merito di aver guidato il contrattacco tedesco, chiamando come testimone proprio Steiner. Quest’ultimo, pur sapendo che durante il combattimento il capitano è rimasto nascosto nel bunker, davanti agli ufficiali si chiude in un impenetrabile silenzio, non avvallando la tesi di Stransky, pur senza sconfessarlo; ritiene infatti che il loro conflitto sia una questione privata. La vita di Steiner diventa dunque una minaccia per il suo rivale, che rischia di finire davanti alla corte marziale: accecato dall’egoismo e dalla vanagloria, Stransky non comunicherà al plotone di Steiner l’ordine tassativo di ritirata, lasciando il caporale e i suoi uomini al di là delle linee nemiche, in una tragica lotta per sopravvivere tra i fuochi incrociati dei due schieramenti.
Con La croce di ferro, Sam Peckinpah (Il mucchio selvaggio, 1969 e Cane di paglia, 1971) ripropone un’idea di cinema anti-established che ne ha fatto uno dei pionieri della Nuova Hollywood. Partendo da una prospettiva storica straniante, da sempre scarsamente indagata dall’universo cinefilo, il regista confronta per la prima volta il proprio cinema, già dimostratosi piuttosto brutale, con la forma di violenza più estrema: la guerra. Lontano da qualsiasi volontà apologetica o incriminatoria nei confronti del nazismo, Peckinpah porta sullo schermo le contraddizioni di un mondo, quello del terzo Reich, sull’orlo dello sgretolamento. In un panorama dominato da macerie, detriti, esplosioni, scheggie di mortaio e polvere, ogni conquista dell’uomo si rivela caduca, e la guerra diventa il luogo dell’esercizio assoluto del non-pensiero, simboleggiato dalle parole che il capitano Steiner rivolge ad un giovanissimo prigioniero russo: Non ti posso tenere qui: tu mi fai pensare, e fai pensare gli altri. E qui non dobbiamo pensare: ne abbiamo perso il diritto. In questo teatro di irrazionalità inconsolabile, l’uomo non può fare altro che inseguire evanescenti illusioni di gloria, come Stransky con la croce di ferro, o abbandonarsi ad un riso disperato, come farà il capitano Steiner nell’ultima, tragicomica sequenza. Al fine di sottolineare le tematiche trattate, la regia si avvale di un linguaggio crudo che oscilla tra l’iperrealismo e l’allucinazione (magistrale la resa della convalescienza di Steiner tormentata da visioni paranoiche), ulteriormente valorizzato da un montaggio frenetico che bombarda lo spettatore di suoni e immagini, proiettandolo nella sanguinosa frenesia dell’azione bellica dove, per l’appunto, lo spazio.