Pino Daniele – Terra mia

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Manca, la musica di Pino Daniele. Terra mia è un collage di vecchi ricordi, alcuni allegri, altri amari, ma proprio per questo affascinanti. Suoni e sapori di una terra che non è più la stessa. Che fine ha fatto la tarantella? E le altre musiche di un tempo? Davvero la musica tradizionale è solo folkloristica e buffa?

Pino Daniele ce la metteva sempre un po’ di tarantella, nei suoi dischi. Terra mia ne ha in abbondanza. In Che calore è elemento centrale di spensieratezza, che fa sorridere con sincerità. È un gran divertimento. In due parti del brano Daniele gioca anche con la propria voce, dandole un suono come in sordina, simile a quello del kazoo. Il contrasto con il brano successivo, la breve e appassionata Chi po dicere, è intenso. Ammore, ammore, ammore: vibra dolce la voce di Daniele a fine canzone, trattenendosi più a lungo sull’ultima nota. La sensazione è quella piacevole del tepore di una coperta dopo una giornata movimentata; come una tarantella, appunto.

L’album si apre come d’incanto. Il dolce suono dell’oboe sugli accordi limpidi di pianoforte e l’armonia nervosa di chitarra e mandolino introducono il canto e gli cedono la scena. Napule è mille culure, Napule è mille paure. Napule è è una poesia, la poesia che è Napoli; Napoli che è come la vita: colori e paure.

E nella vita di oggi i “dolori di pancia” sono gli stessi di ieri. Terra mia esce nel 1977, eppure la denuncia di ‘Na tazzulella ‘e cafè è tuttora attuale. Una tazzulella tira l’altra e quarant’anni passano in fretta; ma eccoci ancora qui, tra ingiustizie e corruzione, tra vecchi mbruoglie (imbrogli) e cose ‘e pazze (cose da pazzi).

Daniele usa le parole e la lingua della propria terra. Significati esatti che una traduzione in inglese, o perfino in italiano, tradirebbe. Maronna mia è il funk nero che si fonde alla caciara di Rino Gaetano: è la storia di un furto per opera di qualche guaglioncello; ma soprattutto è un’espressione che produce precise immagini nella mente di chi l’ascolta. Il napoletano – si ll’ancappo saje che succede, nce faccio ’o mazzo tanto, è gente ‘e niente, canta Daniele – e le altre lingue custodiscono i particolari sottilissimi della bellezza del mondo. Eh, maronna mia! – starete pensando voi – è una recensione questa, o una dissertazione di linguistica? Un po’ tutte e due, in fondo.

Ce sta chi ce penza è una festa di linguaggi lontani, contrappuntati da una miriade di suoni e voci,con mandolini a tutto spiano e contrabbassi in walking bass. La confusione del mercato del rione Sanità si fonde con lo swing afroamericano. Ma quello con l’America è solo l’incontro più recente. Napoli è grande porto del Mediterraneo, nodo tra Nord e Sud del mondo. I suoni di questa commistione culturale rivivono in brani come Fortunato, Terra mia – che presta il titolo all’album – e Saglie, saglie. Ma il talento di Daniele è la capacità di inserire storia personale e luoghi d’origine nella contemporaneità, come in Suonno d’ajere e Libertà, in cui la contaminazione coinvolge anche il rock inglese; come in Cammina, cammina, che è un po’ valzer e un po’ ballata, un po’ ninnananna e un po’ jazz; come in ‘O padrone, in cui riecheggiano Dylan e Springsteen.

Il mio primo incontro ravvicinato con Pino Daniele – distrattamente presente da sempre nel sottofondo musicale della mia vita – fu il videoclip di Pigro. Correva l’anno 2004. Pigro è una bossa raffinata, che l’adolescente che ero si sorbiva in rotazione sui canali televisivi musicali, un poco scocciato. Qualche anno dopo, ormai giovane uomo e fanatico del groove americano, persi la testa per i riarrangiamenti di A me me piace ‘o blues e Che Dio ti benedica, presenti nella raccolta di successi di Daniele Yes I know my way. Nel 2012 assistetti al suo concerto a Milano, al Teatro degli Arcimboldi.

Mi ha catturato solo da ultimo la straordinaria abilità di Daniele di fondere nuovo e vecchio, America e tradizione partenopea, suoni d’Occidente e d’Oriente. Nel fare questo Daniele non risultava né buffo né folkloristico, né vecchio né provinciale. Al contrario, ha da sempre riscosso un grande successo internazionale perché aveva una profonda conoscenza delle proprie origini e, anziché vergognarsene e nasconderle, ne faceva elegante sfoggio.

Manca, la musica di Terra mia. Manca anche la musica italiana.

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Giuseppe Mele, classe 1989, nasce e cresce a Milano. Ha vissuto per alcuni periodi in Regno Unito e in Australia. Ha suonato, inciso un disco e girato videoclip musicali in qualità di batterista e corista. Ha lavorato anche come cuoco, addetto stampa, organizzatore di eventi, fattorino, intervistatore telefonico, insegnante di batteria e cameriere. È laureato in Comunicazione e Società presso l’Università degli Studi di Milano. Come potrete immaginare, quindi, è appassionato di musica, media, vino, global politics, viaggi, cinema, culture, Sydney, arte, Alberto Sordi, e via dicendo.