Oskar Panizza – La fabbrica di uomini

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Che cosa è veramente un pazzo? Perché la società decide di liberarsi di lui, di seppellirlo in un ospedale psichiatrico? Per curarlo o per ridurlo al silenzio? Perché è portatore di una furia distruttiva, o perché conserva la capacità di esprimere ciò che i cosiddetti “sani di mente” non sanno, o non tollerano di sentirsi dire?

Oskar Panizza, autore dei quattro racconti de La fabbrica degli uomini, visse nella Germania del secondo Ottocento, nell’arco di tempo fra il cancellierato di Otto von Bismarck, la fondazione dell’impero degli Hohenzollern, la disfatta della Prima Guerra Mondiale e gli albori della Repubblica di Weimar. La sua epoca lo giudicò  pazzo, e tentò a più riprese di soffocarne la voce. Dopo le prime opere, accusato di “oltraggio alla religione” e “lesa maestà”, Panizza conobbe infatti il carcere, e chiuse la sua vita dopo diversi internamenti in case di cura per alienati.

Oggi sappiamo che, se pure coltivò e rappresentò nella sua arte qualche innocua ossessione, non era certamente più squilibrato del suo tempo e del suo Paese: l’epoca del militarismo prussiano, quando un popolo compatto e ordinato, fedele al Kaiser e devoto al Dio degli eserciti, nutriva i sogni di potenza che, nello spazio di qualche decennio, sarebbero sfociati in immani carneficine.

Non era pazzo, Oskar Panizza. Piuttosto era un veggente dotato di una “vista di cristallo”, di un terzo occhio che, al di là del conformismo di una società cieca, gli permetteva di cogliere la vera natura dell’uomo tedesco (e forse dell’uomo tout court): una natura meccanica, di marionetta costruita e manovrata da un inaccessibile burattinaio, di docile robot fabbricato in serie, di automa mite e remissivo, pronto a sacrificarsi se solo lo si nutre con gli unici alimenti che è in grado di assimilare – la promessa della gloria militare e, soprattutto, l’illusione religiosa. Un meccanismo perfetto, pronto però a incepparsi se fede e orgoglio di soldato si distorcono, assumendo la forma del senso di colpa.

La prosa di Oskar Panizza, duttile e varia, è ideale per declinare questa apparente contraddizione: nel racconto eponimo il protagonista si addentra, guidato da un beffardo padrone-scienziato-creatore, in una strana fabbrica, per scoprire con crescente orrore che essa costruisce uomini, piccoli golem ubbidienti prodotti solo per servire.

In Il baraccone delle figure di cera è l’illusione religiosa, nella forma di una grottesca rappresentazione teatrale della Passione di Cristo in cui recitano fianco a fianco esseri umani e burattini, ad avvincere e suggestionare gli spettatori, scatenandone infine la violenza.

Nell’inquietante Il tizio dei corsetti è raccontata la conversione alla rovescia, la discesa nel buco nero della lussuria e della pazzia, di uno studente in teologia apparentemente irreprensibile, travolto dalla passione feticistica non per i corpi femminili, ma per una parte di essi: il busto privato di testa, di braccia e di gambe, inguainato e impreziosito dal corsetto.

Ne Il rospo giallo si rappresenta un incubo en plein air. Non è il corpo umano a diventare macchina ma, al contrario è la macchina che si anima, minacciando l’equilibrio mentale dell’uomo. Vi si racconta  come una tranquilla gita in un giorno di sole sul fiume Tamigi si trasformi in una paurosa allucinazione dopo l’incontro del protagonista con un battello giallo, simbolo di uno spirito vendicativo che si leva dalla nostra stessa invisibile anima.

C’è qualcosa, nei racconti di Oskar Panizza, che ci rimanda gli echi dello spirito germanico nella sua accezione più straniante e visionaria, riportandocene alla mente il costante riemergere nei testi di quella cultura, sia precedenti che successivi. Come infatti non riconoscere nei suoi burattini meccanici le bambole animate di E.T.A. Hoffmann, precursore della letteratura fantastica? O, nelle ossessioni dei suoi personaggi, il senso del peccato degli eroi di Franz Kafka? O, nei suoi uomini-prodotto, gli operai-soldato del film Metropolis di Fritz Lang e dell’omonimo romanzo di Thea Von Harbou? Come non cogliere, nella figura del capitano d’industria della Fabbrica, la prefigurazione del Führer che, di lì a poco, avrebbe irregimentato la Germania?

Sono i segni inconfondibili della doppia natura di un popolo obliquo, ad un tempo tragico e totalmente razionale, a farci rabbrividire e insieme ad affascinarci nei testi di Panizza. Proprio per la sua ambivalenza, per il suo scavo lucido e allucinato delle profondità dell’animo umano, La fabbrica di uomini conferma il potere a un tempo affabulatorio e rivelatore della letteratura: a chi crede all’imperfezione, alle sfumature, all’ombra, al cambiamento e alla profondità esso fornisce infatti un’autorevole conferma dell’inesistenza della razionalità del mondo; a chi, al contrario, possiede una fede sicura, un pensiero forte e un ideale certo, a chi riposa nelle certezze della sanità mentale e del progresso illimitato, a chi vive inconsapevole e fiducioso, esso parla della forza invincibile del caos, del quale ogni esistenza umana è destinata prima o poi a sperimentare la vertiginosa complessità.

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Un altro uomo invisibile che galleggia in mezzo al mare del nulla, è arduo definirlo sia per tratti somatici che per età. Campa la vita lavorando, di contraggenio, in uno dei templi assoluti della brescianità e, ciò nonostante, ne prende ispirazione per le cose che scrive. Espulso da tutti i circoli cui si è aggregato, gli amici lo chiamano “Wikipedia” a causa dei discorsi incomprensibili e della pronunzia, che confonde in un unico suono le erre, le elle, le vu, le pi, le bi, le esse e le effe. Sostiene di essere pacifista, ma si vanta di aver redatto, molto tempo fa, alcuni testi rivoluzionari per un ex-guerrigliero irascibile e avarissimo, ora convertitosi al libero mercato.

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