“D’inverno ogni cosa muore”. Così esordisce il romanzo di uno dei maggiori narratori irlandesi del Novecento. E descrive l’inverno come una stagione apocalittica: “L’inverno era giunto. Il mare distruggeva tutto ciò che, nato in primavera, era fiorito in estate e aveva dato frutti in autunno”. In questa frase, posta nella prima pagina, c’è la chiave di lettura dell’intero libro. C’è il percorso di maturazione del protagonista, Fergus O’Connor, detto lo Straniero, l’anima nera del titolo; c’è quello della natura, che tutto travolge e sovrasta e cui non ci si può opporre; e c’è quello degli altri personaggi. Ma ci sono, soprattutto, le multiformi metafore sottese alle frequenti descrizioni naturalistiche. Perché ne “L’anima nera” l’ambiente si fa personaggio, e gli vengono continuamente attribuite caratteristiche umane, così che si fa persona e allo stesso tempo evento.
Le azioni della natura sono ineluttabili, ma sono anche indice delle trasformazioni che avvengono, o falliscono, nell’animo degli uomini. Come non leggere, per esempio, una metafora storica sotto le spoglie delle mutazioni naturali, dove l’inverno è un qualsiasi evento politico o sociale nefasto (per esempio una guerra o un totalitarismo) nel quale però maturano i semi della ribellione; semi che germoglieranno a primavera, una stagione ancora fredda, tagliente, come deve essere ogni capovolgimento sociale; che si stabilizza e dà il meglio di sé nell’estate, consolidandosi; fino a dare i propri frutti migliori in autunno. Al termine del romanzo non sappiamo che cosa porterà il nuovo inverno, ma siamo confortati dalle rivelazioni che hanno illuminato il protagonista e che ci fanno nutrire speranza anche di fronte all’imminente schianto della nuova stagione.
E’ proprio attraverso la descrizione apocalittica delle prime pagine che approdiamo alla presentazione dei personaggi principali: Red John, un uomo impotente e frustrato; sua moglie Little Mary, bella e sdegnosa, che mai gli si è concessa; e lo Straniero, ospite pagante della coppia con un misterioso passato che affonda nella guerra. Ciò che veniamo a sapere di quest’ultimo lo apprendiamo dapprima dall’esterno, attraverso ciò che si dice di lui, poi attraverso le sue azioni e i suoi stessi pensieri. Pensieri inquieti, conflittuali, solo apparentemente incoerenti. Fergus O’Connor, lo Straniero, è un intellettuale frustrato, inconcludente, incapace di raggiungere conclusioni, di prendere decisioni, di agire e reagire adeguatamente. Perché le sue elucubrazioni sono quelle di uomo arido e distante, incapace di afferrare il vero significato delle cose, perennemente in conflitto con la propria condizione e con il senso di superiorità nei confronti degli abitanti dell’isola, poveri contadini e pescatori. Ma si tratta, in realtà, di un uomo comune, che indossa la cultura come maschera e come scudo, con superbia, e proprio per questo non riesce ad accedere ad alcun grande pensiero che non l’abbia preceduto. E non sembra poter essere l’amore passionale condiviso con Little Mary a salvarlo da un sistema di falsi valori: “Lei è buona, ma soltanto verso coloro che preferiscono la verità al cinismo a buon mercato e alle sciocchezze della pseudocultura”.
Il romanzo si svolge in nove capitoli, due per ogni stagione e uno in più per l’autunno. Alle mutazioni della natura corrisponderanno quelle dei personaggi, a volte in opposizione, altre in accordo, portando ognuno alle estreme conseguenze del proprio modo di essere e di agire.
La storia è narrata in maniera lineare, scorrevole, e l’autore sa immergerci talmente a fondo nell’ambiente da non farcene pesare le descrizioni, sempre vivaci e dense di fascino. I personaggi sono delineati senza psicologismi e con rara efficacia, e O’Flahery è maestro nel farci vivere in prima persona le loro tragiche vicende.
Un libro modernissimo, che si può leggere tutto d’un fiato e che lascia il segno: addentrarsi tra le sue pagine è un’esperienza memorabile, intensa sia sul piano emotivo che su quello del piacere intellettuale. Non esito a definirlo un capolavoro.