Harry “Coniglio” Arnstrong è stato un asso della pallacanestro al liceo ma, abbandonata ogni velleità sportiva, ora conduce una grigia vita da addetto alle vendite per un grande magazzino, con una moglie scialba, incinta e alcolizzata e un figlio piccolo cui non riesce ad affezionarsi.
Un giorno gli capita casualmente di giocare con dei ragazzini e quell’episodio, apparentemente insignificante, provoca in lui una profonda crisi: come se un velo gli fosse caduto dagli occhi, vede la sua vita monotona, soffocante, piena di cose che non lo soddisfano, accanto a persone, in primis sua moglie, per le quali prova solo fastidio.
Racconto esistenziale nel quale l’autore, senza sentimentalismi, racconta l’epopea di un uomo in fuga: una sorta di Holden Caulfield fuori tempo massimo, che non ha davvero la forza per voltare pagina e può solo correre, senza però arrivare da nessuna parte.
John Updike riesce a rendere il disagio esistenziale di Coniglio con lunghi paragrafi di discorso indiretto libero, attraverso i quali entriamo nella mente del protagonista riuscendo a coglierne il profondo egoismo e la mentalità infantile, ma senza poter evitare di compatirlo e, in fondo, anche di parteggiare per lui.
Il resto del romanzo è occupato da descrizioni oniriche ed evocative dell’America degli anni Cinquanta, di uno stile di vita dominato dal conformismo e dal materialismo, verso cui l’autore si mostra critico; mentre lo stile della prosa, che deve non poco a Kerouac, è essenziale, con pochi, secchi e brevi dialoghi di taglio quasi cinematografico,
Un’opera “difficile”, che mette a disagio tramite lo stile e il ritmo sregolato, ma capace di inchiodarci alle pagine come ipnotizzati.