Gibbsville è una cittadina di provincia dell’America dei Roaring Twenties, con le sue versioni in sedicesimo di faide di gangster e relative pupe, le sue serate mondane raccontate con dovizia di particolari dalla stampa locale, i suoi circoli esclusivi ritrovo di annoiati ricconi e sogno di più modesti impiegati, le sue storie di follia e i suoi eroi maledetti.
Uno di questi è il protagonista di Appuntamento a Samarra: Julian English è un rampollo di buona famiglia, all’apparenza perfettamente inserito nel giro che conta, che ha sempre frequentato, con una bella moglie e una promettente carriera; una sera, però, cede a uno scatto d’ira e litiga, in maniera plateale, con uno dei pezzi grossi della buona società.
Il suo gesto scatena un processo di rottura delle convenzioni e lo sfogo di un’insofferenza covata da anni verso una famiglia per la quale non prova affetto, verso quell’ambiente sociale snob ed estremamente ipocrita – versione provinciale della Chicago scintillante e pericolosa raccontata dal cinema – e verso se stesso, da tempo consapevole di aver deluso le aspettative paterne e di aver tradito, fino all’esasperazione, l’affetto e la pazienza della moglie, sinceramente innamorata ma logorata da una relazione piena di rancore.
Il romanzo di John O’Hara racconta una storia di autodistruzione, la corsa verso la rovina di un uomo che solo poco prima che ne facessimo la conoscenza era lontanissimo dal baratro, come narra la favola a cui fa riferimento il titolo e forse i lettori italiani conosceranno per essere stata cantata da Vecchioni nella celeberrima Samarcanda. La brevità del romanzo risulta quindi un ingegnoso espediente letterario per comunicare la velocità con cui Julian va al suo appuntamento con la Rovina, convinto di sfuggirle, senza però poter dare la colpa alla società, al periodo storico e nemmeno alla squallida vita che ha condotto: il suo è un appuntamento a cui, semplicemente, non poteva mancare.
Fortemente consigliato.