Che differenza c’è tra comunità e società? Come individui riconosciamo di aderire a una società, ma ogni volta che riflettiamo sulla perdita e sulla distorsione del sistema valoriale contemporaneo richiamiamo alla memoria bisogni etici primari propri della comunità, come la solidarietà, l’accettazione della differenze, l’appartenenza e il riconoscimento dell’identità.
Con “Un’estate a Greenvoe”, George Mackay Brown ci consegna una riflessione aspra e straordinaria su questi temi, immergendoci nella vita e nel destino degli abitanti di Hellya, una piccola isola dell’arcipelago delle Orcadi.
Cinque giorni, uno per capitolo, in cui si dipana e si svela la quotidianità di un’esistenza semplice e in simbiosi con la natura del mare e del promontorio spigoloso e selvatico. Ci sono tutti, i rappresentanti della comunità: ci sono le famiglie di pescatori, alle prese con la lotta per il pane giornaliero, tra furti di aragoste, salvataggi in mare e giusto saldo di un debito, e ci sono i contadini, a conoscenza e difesa della terra, tenutari dei segreti del ciclo delle messi, archetipo di vita, morte e risurrezione. C’è il traghettatore misogino e brado, sospeso tra il mare e la costa come il suo essere, a difesa di una libertà che pensa di non avere approdi e ci sono i bambini, scaltri e crudeli mentre misurano il potere nella lotta tra i forti e i deboli, vulnerabili e vergognosi di fronte a una coscienza che si impone, d’istinto, con la fuga dopo le malefatte. C’è la memoria nei racconti dello scrittore, che registra con autentica passione i miti dell’origine di Hellya e li canta agli avventori del bar di Scorradale, tra una pinta di birra e l’altra, complice di un legame che scorre liquido, come sangue, e c’è Timmy, il pazzo, che raccoglie pezzi di vita tra gli anfratti dell’isola.
E ancora, c’è il vecchio signore delle terre, il Laird, richiamo feudale riconosciuto ma non più subito e c’è la religione macchiata di umanità nel reverendo ubriacone e nella madre alle prese con il bilancio della propria esistenza. C’è la femminilità matriarcale nelle mogli, madri e sorelle che curano e proteggono lo svolgersi della vita, c’è la femminilità che appassisce nella maestra zitella che non regola il desiderio con il tempo e c’è quella esplosiva e sensuale nella giovane nipote del laird; c’è la femminilità che dona la vita tra le braccia accoglienti e assolte di Alice, madre delle meraviglie. C’è l’anima del commercio nell’emporio dei coniugi Evie, meschina e pettegola lei, il bacio di Giuda già pronto sulle labbra di lui, e ci sono due stranieri, uno con l’anima partecipe della comunità, l’altro soltanto un’ombra cupa ed estranea, già nato per essere nemico.
Si conclude, con il sesto capitolo, il destino di Hellya. L’ombra straniera impone all’isola lo stato di società; la scava, la deturpa, la imbroglia e la rapina. La scaccia. Non’è più il ritmo dei giorni a scandire lo svolgersi della vita perché la vita è stata assassinata.
Ma i segreti del ciclo delle messi si sono conservati, e sarà ancora Hellya a regalare l’ultimo momento del rito: la rinascita. Non è un caso, infatti, che l’autore, convertitosi in età adulta al cattolicesimo, abbia scelto di articolare quest’opera in sei capitoli: nella Bibbia sette sono i giorni che Dio impiega a creare il mondo perché il settimo giorno è dedicato al riposo e alla contemplazione gioiosa dell’opera compiuta. Il destino di Hellya non è compiuto, come non lo è il destino dell’umanità.