Cosa ne è stato di Amleto, di quello che fingeva di essere pazzo o forse pazzo lo era per davvero?
Amleto, a quanto pare, è ancora vivo, ha attraversato i secoli, solcato i mari e varcato i confini delle nazioni vivendo in ogni luogo, perché in ogni tempo c’è un uomo che si interroga sulle ragioni del bene e del male; un uomo attanagliato dal dubbio e smarrito; un uomo che cerca l’essenza stessa della vita.
È un Amleto contemporaneo, lo è in ogni epoca, perché in ogni tempo, persa tra le infinite fragilità dell’esistenza, c’è una ricerca della verità nella relazione con l’altro e con se stessi.
Amleto è un corpo esploso i cui frammenti si ricompongono in un testo, Hamlet In Pieces. Materiali per Orazio, un computer e altre macchine, un copione da recitare sulle tavole di un palcoscenico, con un solo attore in scena e tanti personaggi che lo attraversano come solo una moltitudine può fare quando tutte quelle voci ce le hai dentro; tante facce, rappresentazione grezza di volti umani che guardano l’abisso nella speranza di riemergere in una nuova umanità.
Ernesto Orrico, attore, autore e regista, ha raccontato il suo personale Amleto a teatro, e di quello spettacolo lascia traccia pubblicando il testo drammaturgico privo di note registiche, optando per dare spazio solo alla parola, alla poesia, che in fondo è tutto ciò che rimane quando le luci del palcoscenico si spengono e il sipario si chiude.
Hamlet in pieces è qualcosa che somiglia tanto a un libretto di sala, di quelli che andrebbero distribuiti dopo ogni spettacolo, perché il pubblico dovrebbe avere la possibilità di portare a casa, oltre alle suggestioni della messa in scena e della musica, anche le parole impresse nero su bianco, per poterci ritornare ogni volta che riaffiorano nel pensiero, per farle proprie o per respingerle tutte le volte che si leggono.
L’atto unico dello spettacolo si trasforma nel testo in una divisione per titoli che, di fatto, ha come scopo quello di dar voce ai vari personaggi, che attraversano un solo corpo capace di collocarsi su una scena disegnata dalla forza evocativa delle parole.
Gertrude, Rosencrantz, Guildenstern, Claudio, Polonio e Laerte si muovono tra le pagine del testo come persone in carne e ossa, così come sono reali i personaggi della compagnia di attori che mettono in scena il dramma dell’omicidio del re Amleto, l’omonimo padre di Amleto. Amleto, un nome che suona come un necronimo, con la conseguente contraddizione tra vita e morte che si trascina dietro. La voce di Ofelia è ultraterrena; lei è già morta, racconta di baci, dell’amore, della follia e di quel sentimento di vendetta che reclama morte. Amleto, il figlio unico, il bravo ragazzo, il giovane irrequieto è una voce che risale dal profondo dell’angoscia di vivere e di esistere.
La dimensione temporale indicata da Orrico è trasversale, parla però di un tempo in cui la nausea non esisteva, ma è chiaro che proprio la nausea è la condanna stessa di Amleto: per lui il mondo rassicurante non esiste più e dedica la sua vita a un morto, suo padre, nella ricerca di una verità che diventa fardello nel momento in cui la scopre. Amleto si interroga sulle ragioni del bene e del male, ma non è solo, porta dentro di sé il padre che grida vendetta, la madre che diventa vergogna, Claudio usurpatore e senza onore; in lui è anche Ofelia, e pure a lui tocca annegare, se non nell’acqua nelle sue laceranti contraddizioni, nella sua difficoltà davanti alla scelta. Proprio questa è la nausea che attanaglia Amleto: la costante tensione tra libertà e responsabilità personale. Sono questi i temi dell’esistenzialismo e in virtù di questo, parafrasando Jean-Paul Sartre, potremmo dire che Amleto non riesce a mettersi il passato in tasca e la casa in cui sistemarlo è andata distrutta.
E poi c’è Orazio, l’amico fidato di Amleto, che l’autore del testo drammaturgico trasforma in uno stralunato cantastorie che racconta la causa di Amleto tra tagli e salti, confondendo tempi e luoghi, alludendo e dimenticando, riassumendo e cambiando. Personaggio imperturbabile, Orazio racconta e riassume la sua versione dei fatti; narra una fiaba tragica e, proprio come fanno le fiabe, scopre un mondo interiore e lo fa nel modo più leggero e giocoso possibile. Il suo è un cuore cantastorie, che narra una storia vecchia come il mondo annunciandola così come iniziano le fiabe: once upon a time.
Orazio e Ofelia fanno a pezzi questa storia, la sgretolano, la sfaldano, la smontano e la rimontano ripetendola e rintracciando le vere identità delle persone. Un racconto che procede per retrospezione, interrompendo appunto la naturale struttura cronologica della storia. Una tragedia che entra in un continuo confronto con l’altro Amleto, quello di Shakeaspeare, incontrando, soprattutto dal punto di vista della struttura drammaturgica e nella messa in scena, per chi ha avuto la possibilità di assistere allo spettacolo, l’altro Amleto, quello di Carmelo Bene. Il modo di smembrare il testo, l’effetto sonoro delle parole, anche nelle stesse ripetizioni svelano, oltre che l’assassino, la coscienza di una società che passa attraverso l’arte. Allora ,se si parla di coscienza, non si può prescindere dai luoghi, perché sono proprio le geografie che definiscono le coscienze, le contraddizioni, le identità, ciò che eravamo e che vogliamo continuare a essere o a non essere più. Allora Ofelia viaggia per l’Europa con un bagaglio leggero, passa da Berlino ed Elsinore è la sua casa; ma dov’è Elsinore?
Anche Orazio racconta di intrighi e tragedie in una Danimarca immaginaria, ma parla anche della Palestina distrutta dalla violenza; parla della Russia, dell’Ucraina, della Somalia, e di Elsinore; ma dov’è Elsinore?
Amleto, tragedia di vendetta e di sangue, di spettri che chiedono vendetta, di dubbi e di smascheramenti, finisce nel luogo dove la porta Amleto, nella terra della famiglia, del potere del capo mandamento, del padrone, del boss; e allora ci si chiede: dov’è Elsinore, in Danimarca o in Calabria?
Le foto di scena sono di Pietro Scarcello, per gentile concessione
Ernesto Orrico
Attore, autore e regista, ha pubblicato i testi teatrali ‘A Calabria è morta (Round Robin, 2008) e La mia idea. Memoria di Joe Zangara (Erranti/La scena di Ildegarda, 2020); le raccolte di poesie Appunti per spettacoli che non si faranno (Coessenza, 2012), The Cult of Fluxus (Erranti, 2014), Talknoise. Poesie imperfette e lacerti di canzone (Edizioni Underground?, 2018), Canzoniere storto (Edizioni Underground?, 2022) e Nel sud del sud del suono (Edizioni Underground?, 2024).
Animatore di progetti di contaminazione tra musica e teatro (The Cult of Fluxus, Speaking and Looping), è autore dei testi e voce nell’album Talknoise con le musiche di Massimo Garritano (Manitù Records, 2018). Ha lavorato con Teatro delle Albe, Scena Verticale, Teatro Rossosimona, Zahir, Centro RAT, Teatro della Ginestra, SpazioTeatro, Compagnia Ragli.