Charles Bukowski – Taccuino di un allegro ubriacone

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La domanda, quando scorgiamo Taccuino di un allegro ubriacone sul banco delle novità, nasce spontanea: serve ancora un postumo di Charles Bukowski? Resta il dubbio che il libro gli sia attribuito solo per il nome in copertina e non per i contenuti. La risposta la rimandiamo a quando gireremo l’ultima pagina e il resto diventerà storia, quindi la risposta è: sì, serviva. Soprattutto davanti a un libro che mette a confronto differenti aspetti dell’autore che meglio ha raccontato lo sconforto, la disperazione e la lotta per la sopravvivenza, sconfitti solo dall’amore per la scrittura.

Questo Taccuino ci presenta tre diverse situazioni bukowskiane: i suoi racconti, che si collocano in tempi recenti, visto lo stile più morbido, mixato tra beat generation e pacata saggezza; le sue prefazioni e recensioni di libri di poesie di altri autori; e alcune interviste recenti.
A dire il vero la prima parte, quella dedicata agli ultimi racconti, che dovrebbe scorrere veloce come nelle sue opere storiche come Factotum, Taccuino di un vecchio porco, Post office, ogni tanto si inceppa, costringendoci a tornare indietro e a rileggere ciò che voleva dire. Forse sarà un mio personale istinto, ma nei racconti appare un Hank un po’ più presuntuoso, che infarcisce il suo scritto di rimembranze di Burroughs, sicuro che ormai chiunque possa capire, anche se la via del suo raccontarsi è un po’ più complicata e tecnicamente migliore. L’impaccio comunque dura poco: i suoi must legati all’alcol, all’ippodromo, al sesso e al disprezzo per il genere umano ci riaccompagnano ben presto nel desiderio di girar le pagine, senza doverci guardare troppo le spalle. In aggiunta ai suoi stereotipi, colonna portante dei racconti, inserisce anche la sua pesante critica alle riviste minori, sottolineando quante volte hanno rifiutato i suoi scritti e le sue poesie.
La parte centrale del libro è una serie di prefazioni e recensioni, scritte soprattutto per libri di poesie, in cui ribadisce e sottolinea, se mai ce ne fosse bisogno, il suo amore viscerale per la forma poetica piuttosto che per quella prosastica. Incontriamo un Bukowski che abbandona gli abiti di disadattato arrabbiato con il mondo e si veste da professore, dispensando a giovani poeti il suo didattico pensiero, pur intriso della sua anarchica follia, del suo cinismo e della sua presunzione. I suoi giudizi e consigli sono di tale intensità nell’esaltare la poesia da mettere in dubbio la normale scelta di lettura generalizzata. Forse la poesia ci fa più paura, forse la troviamo più difficile, ma il suo slogan “il romanziere uccide la poesia” ci fa capire quanto sia più importante, per chi scrive e vuole comunicare, esprimere un concetto in poche righe e darlo in pasto al pubblico, senza frivolezze di contorno. Poi, se lo si vuole vestire di descrizioni, ambientazioni e situazioni, ben venga, ma senza perdere di vista il fatto che la poesia è l’intensità di momenti sconosciuti, che possono essere vissuti e interpretati molto più a lungo di centinaia di pagine di contorno.
Alla fine troviamo un Bukowski che, ormai famoso e conosciuto, si regala a interviste, nell’ovvia ottica di rafforzare i suoi prodotti letterari, e lo fa in modo sorprendentemente lucido, senza troppe esagerazioni o estremismi estrapolati dal suo prosaico modus operandi, regalandoci un’immagine di sé più vicina alla nostra quotidiana comprensione, staccandoci dal mito del vivere estremo e del “nonostante tutto ce la faccio, perché sono un artista”. Dichiarazioni gentili e sincere ma fedeli alla sua natura di autore, di poeta e scrittore che, anche se ben felice di mantenersi solo con la scrittura, ancora una volta pone l’accento su come, al di la di tutto, scrivere sia l’unica cosa che gli interessa e che vorrebbe sempre fare. Una chicca imperdibile è sicuramente la spiegazione di com’è nato il nome del suo alter ego Chinaski, sinonimo di colui che ha assorbito le botte riservategli dalla vita per lungo tempo.

Sì, un Bukowski che ancora ci serve, per ricordarci che gli aspetti esteriori e i miti forzati non fanno un artista, ma è l’arte poetica che crea tutto il resto. Quel resto che con il tempo cambia, mentre la poesia resta.
L’ultima sua risposta, quella che chiude il libro, è forse la più esplicativa e lucida nel mandare il suo messaggio: “Non sono abbastanza saggio per comandare, ma sono abbastanza saggio per non seguire il gregge”.

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Fiorenzo Dioni nasce a Brescia nel 1963. Progettista di professione, scrittore per passione, scrive da sempre, ma ha cominciato a pubblicare solo pochi anni fa. Ama scrivere racconti ispirati a situazioni quotidiane, dandogli poi una veste surreale e di fantasia. Ha pubblicato tre libri: “Porte”, composto da tre racconti lunghi, “Riflessi”, un progetto in collaborazione con una fotografa in cui si sono incontrate e confrontate immagini e parole, “L’uomo in scatola”, pubblicato da Calibano Editore, composto da 19 racconti surreali. Da uno di questi è stato tratto il fumetto “Mio padre, il tango” (Calibano, 2023). Ha partecipato a varie antologie di racconti a tema, tra cui “Anch’io. Storie di donne al limite”, “Ci sedemmo dalla parte del torto”, “Nulla per cui uccidere” (Prospero Editore), e “I racconti della Leonessa” (Calibano Editore). Altri suoi racconti sono stati pubblicati sulla rivista Inkroci, con cui collabora anche per recensioni di libri e dischi nelle rubriche “Attenti al libro!” e “Formidabili, quei dischi!”. In passato ha scritto recensioni per le riviste NB e Dentro Brescia.

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