In uno dei miei sogni più particolari mi trovavo al di là del segnalibro sbiadito che rappresenta il passaggio tra la vita e la morte, immerso in una nebbia azzurra striata di bianco. Piccoli cartelli con frecce rosse indicavano altrettanti nomi. Incuriosito da quell’ambiente (e completamente sconcertato e deluso dall’assenza di cori angelici, ai quali avrei immediatamente chiesto quale scala musicale usavano abitualmente e perché) iniziai a leggere i nomi intagliati e tinti di azzurro.
Scelsi TASSO. Arrivato a un piazzale, anch’esso dotato della medesima nebbia sebbene un po’ più rarefatta, trovai altri due cartelli: uno aveva inciso sopra BERNARDO e l’altro TORQUATO. Il secondo toccava il lembo finale di una coda che poteva essere chilometrica; il primo, la cui insegna sembrava perfino più sbiadita di quella che aveva di fianco, era l’immagine stessa della desolazione.
Mi misi in coda, e dopo diversi giorni durante i quali non provai né noia, né fatica, né fame, né sonno, né nostalgia, né fretta, mi ritrovai faccia a faccia con il grande poeta di Sorrento.
Mi toccai il mento, nello stupido tentativo di controllare se la barba fosse in ordine; lui sembrò non farci caso. Dopo aver respirato tre o quattro volte per prendere coraggio, gli feci una domanda che mi ero posto decine di volte: «Perché…». Ma appena mi ebbe udito, Torquato si portò violentemente le mani alle tempie e, mentre correva come un pazzo zigzagando qua e là, gridava: «Basta! Basta!».
Cercai di capire il motivo di quell’atteggiamento. Mi rivolsi allora a Bernardo, il padre di Torquato, seguendo un altro cartello che ne indicava la posizione. Era un cartello bianco, dalla forma irregolare, come se non fosse stato stampato ma realizzato da una mano demoralizzata.
Vedendomi entrare spalancò gli occhi: forse ero l’unico visitatore da quando era morto suo figlio. Il suo banco era desolato: polvere ovunque, foglie morte che si accatastavano le une sopra le altre; ormai non faceva nemmeno più i mestieri. Udendomi domandargli del figlio la sua felicità si mitigò. Ma non del tutto: avere una compagnia, anche se di seconda generazione potremmo dire, per lui era già qualcosa.
Di Torquato venni a sapere che erano ormai cinquecento anni che tutti gli ponevano la stessa domanda quesito: «Perché hai riscritto la Gerusalemme liberata?». E al milionesimo visitatore i suoi nervi avevano definitivamente ceduto.