Nella zona a nordest di Gaomi la vita dei contadini scorre al ritmo del sorgo che ondeggia nei campi. Il sorgo è cibo, vino, nascondiglio per gli amanti e persino tomba. E proprio tra i fusti slanciati e i semi color del sangue, il premio Nobel 2012 Mo Yan (che significa “non parlare”, sinonimo di Guan Moye) affresca la grande saga del clan protagonista di “Sorgo rosso”.
Pubblicato in cinque libri separati tra il 1985 e il 1986, il romanzo racconta le vicende di una famiglia nella Cina rurale ai tempi dell’invasione giapponese. Attraverso le gesta dei suoi antenati, la voce narrante dà vita a una genealogia dai toni epici che attraversa tre generazioni, raccontando il mondo violento e autentico di una Cina arretrata, sofferente e immutabile.
A distanza di un anno dalla pubblicazione dell’opera, nel 1987 Zhang Yimou ne dirige la trasposizione cinematografica, che conquista l’Orso d’oro al festival di Berlino e la candidatura per l’Oscar come miglior film straniero.
La pellicola ruota attorno alla storia d’amore tra il portatore Yu Zhanao e Nove Fiori, la giovane e bellissima promessa sposa di padron Li, il ricco (e lebbroso) proprietario di una famosa distilleria.
Dopo essersi unito a lei tra i fusti del sorgo, Yu decide di assassinare lo sposo di Nove Fiori prima che la possa contaminare; così la giovane eredita dal marito la grande casa e la distilleria e, con l’aiuto dei braccianti, riavvia la produzione di vino di sorgo.
Il rapporto della giovane ereditiera con il testardo Yu, però, non è tutto rose e fiori. Il loro orgoglio li porta a scontrarsi e a riprendersi con la forza, fino ad arrivare a gesti eclatanti; tanto che, per mostrare il suo disprezzo nei confronti di Nove Fiori, Yu urina nelle anfore contenenti il vino novello e, per una strana reazione chimica, dà vita al liquore più buono di cui si avesse memoria nella regione.
La vita della comunità, però, viene presto sconvolta dall’occupazione giapponese. Per vendicarsi della morte dello zio Liu, il fedele amministratore scorticato vivo dai nipponici, Yu organizza un’imboscata che, per uno strano caso del destino, porterà alla morte di Nove Fiori, in un finale in cui il sangue, il sorgo e il cielo si tingono dello stesso identico rosso.
Gli autori della pellicola, però, decidono intelligentemente di operare una selezione rispetto al vasto materiale narrativo offerto da Mo Yan: la sceneggiatura, infatti, si concentra soltanto sui primi due capitoli del romanzo (“Sorgo rosso” e “Vino di sorgo”), senza toccare i tre conclusivi, e termina con la drammatica scena della morte di Nove Fiori.
Il risultato è un’opera concentrata e intensa, capace di aggirare il rischio di risultare insapore e diluita rispetto alla versione cartacea.
Oltre all’ellissi di un’ampia parte della storia (la faida intestina tra nazionalisti e comunisti dopo la ritirata giapponese, l’assedio dei cani e il funerale di Nove Fiori), la principale differenza narrativa tra le due versioni è la gestione dell’elemento temporale.
Nel film gli eventi sono disposti in maniera lineare, ricomponendo il puzzle cronologico ordito da Mo Yan nel romanzo; dove, infatti, le vicende fluttuano tra i vari piani temporali, posizionate in maniera arbitraria dalla voce narrante, grazie ad un uso abbondante di analessi e prolessi che producono un effetto di atemporalità, come se la storia fosse un mito al di fuori del tempo.
Proprio per la sua dimensione epica, l’uso del flashforward e la presenza di credenze popolari e riti sciamanici, “Sorgo Rosso” è stato paragonato da alcuni a “Cent’anni di solitudine” di Gabriel Garcìa Marquez ed è considerato un capolavoro del fiorente filone novecentesco del realismo magico.
Inevitabilmente, la pellicola perde la straordinaria ricchezza stilistica di Mo Yan che nel romanzo, grazie a un utilizzo magistrale della similitudine, crea un gioco di corrispondenze per cui i personaggi che popolano le campagne cinesi finiscono per confondersi con la natura stessa.
Sono numerosi i punti in cui si avverte questo processo di osmosi (rafforzato dai richiami stilistici) tra il mondo umano e quello naturale: ad esempio, uomini e cani randagi si mangiano a vicenda nel corso del lungo assedio, ognuno traendo forza dall’altro in una brutale lotta per la sopravvivenza, mentre il sangue “morbido e liscio come piume d’uccello” dei morti finisce per confondersi con il sorgo.
Proprio questa intimità (fisica e linguistica) tra uomini, piante e animali è la chiave della visione che emerge dalle pagine e dalle sequenze di “Sorgo Rosso”: la Cina della metà del Novecento viene affrescata da Mo Yan e Zhang Yimou come un mondo ancestrale, povero e incivilizzato, dove si ripetono gli stessi gesti millenari sotto la cruda legge della sopravvivenza, ma che con tutti i suoi dolori e le sue miserie rimane vicino a ciò che di più autentico c’è nella vita.
I personaggi diventano l’emblema di un’esistenza che trae linfa vitale dalla terra e che, lontano da essa, verrebbe contaminata. Proprio come Yu e Nove Fiori che, come rivela la voce narrante, “ararono le nuvole e seminarono la pioggia in quel campo di sorgo, arricchendo l’interessante storia della zona a nordest di Gaomi di un attimo di felicità.
Mio padre fu concepito con l’essenza del cielo e della terra, fu il frutto di sofferenza e gioia intense”.