Saga di Ragnarr

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Nella copertina illustrata di questo libricino è racchiuso solo un assaggio della storia e della cultura nordica antica, ma è abbastanza da aprire uno strappo nel velo che nasconde alla nostra vista quel mondo perduto. E attraverso tanti piccoli strappi (e altrettanti volumi di saghe pubblicati da Iperborea nella collana Narrativa), quella civiltà, lontana nel tempo e nello spazio, ci appare un po’ più vicina e comprensibile; ma solo un po’.
La Saga percorre la parabola di vita di Ragnarr e dei suoi straordinari figli, con ogni probabilità ispirati (chi più alla lontana, chi più da vicino) a persone realmente esistite fra i protagonisti della protostoria vichinga. Racconti di amore, perdita, dolore e soprattutto di guerra e di mare, di avventura e di violenza si intrecciano a elementi fantastici e fiabeschi, che rivelano quanto storia, leggenda, cultura orale e letteratura scritta si confondano.
Veniamo accompagnati dalla prima pagina da una prosa che, pur presentandosi con la rara eleganza della semplicità, è nuda e lascia poco spazio all’ornato. Del resto, ci parla di una società in cui la fama si conquista sul campo di battaglia o su una nave, lottando contro la furia gelida delle onde: non c’è posto per gli orpelli o per il sentimentalismo.
Quasi inaspettatamente, però, c’è posto per la poesia: si tratta di strofe di versi scaldici tradizionali (altro sintomo del compromesso fra tradizione orale ed erudita che si realizza nella saga), anche molto pregiati, cui vengono affidate le parole dei personaggi nei momenti di maggior espressività. In lingua originale si tratta di composizioni rette da complicati giochi ritmici e d’assonanza, caratterizzate in particolar modo da oscure metafore dette kenningar: affascinanti dispositivi di costruzione di significato e di immagini, alieni alla poesia occidentale. Ci imbattiamo così in bizzarre perifrasi, nelle quali possiamo solo immaginare di sentire una lontana eco della lingua che le ha prodotte (a meno che non conosciate l’islandese antico, come Marcello Meli). Ci parlano del pesce del suolo per indicare il serpente gigante contro cui Ragnarr lotta per liberare il cervo della cittadella, appellativo poetico riferito a Thóra, prima moglie del condottiero; ancora, troviamo la rugiada del morto, cioè il sangue dei caduti in battaglia, oppure, con una sorta di kenning a incastro, l’incitatore dell’albero marino: con albero marino s’intende la nave, mentre i suoi incitatori sono i marinai vichinghi.
La vicenda ci è presentata da una voce neutra, con focalizzazione esterna, ma, come detto, i pensieri e l’indole dei personaggi irrompono con forza (poetica o bruta) nella narrazione, dinamizzandola. Sono soprattutto i protagonisti ad essere caratterizzati, sin dalla loro presentazione, anche attraverso epiteti che ricordano quelli dell’epica greco-latina: da Ragnarr Lodbrók, letteralmente brache di cuoio/di pelliccia, in riferimento al suo particolare equipaggiamento, fino ai suoi temutissimi figli Ívarr senz’ossa (nato con una malformazione legata a una cupa profezia), Sigurdr serpe-negli-occhi (peculiarità fisica che manifesta il compimento di un’altra profezia) e Björn fianchi-d’acciaio (per la sua resistenza in combattimento).

L’insieme delle tecniche espressive contribuisce a conferire alla saga un’atmosfera peculiare e un poco straniante: riconosciamo motivi della letteratura classica cui siamo abituati, fin nel materiale narrativo (il mito della fondazione della città di York da parte di Ívarr ricorda molto da vicino quello della fondazione di Cartagine), ma incontriamo anche episodi dal sapore esotico, con i quali non sempre ci sentiamo a nostro agio. Ancora una volta, possiamo solo fantasticare su come questo stile particolare dovesse venir recepito da un pubblico (e un uditorio) che ci è praticamente sconosciuto.
Insomma, rispetto ai racconti di eroi e cavalieri della letteratura occidentale, c’è di più; o, in un certo senso, di meno. Non ci sono scrupoli religiosi, o ardore per sentimenti che definiremmo nobili, a spingere i personaggi all’azione: ambizione, conquista della fama anche a costo della vita, vendetta, brama di imprese che superino quelle dei padri (o di non farsi superare dai figli), sete di battaglia sono spesso il motore degli eventi. C’è, è vero, l’amore, quello potente di una madre per i propri figli, quello sincero di un sovrano per la sua consorte, quello fraterno, ma c’è anche tanta perdita. Di fronte alla fatalità o al capriccio, molti di questi legami, pur forti, sono messi a dura prova perché, in fondo, non sono solo eroi ad averli costruiti, ma innanzitutto uomini che, come tali, commettono errori, ingannano e si ingannano.
Il sistema di valori che scorgiamo dietro questa storia sembra estraneo a quello che è stato il nostro passato. Lo notiamo nei rapporti di discendenza: fra padri e figli si crea un legame che è un misto di affetto, spirito di competizione e orgoglio guerriero; i figli di Ragnarr, nell’impeto di una sorta di prova d’iniziazione, devastano mezza Europa con le loro razzie inarrestabili (giungono addirittura fino in Italia, nella città di Luni). Áslaug, seconda moglie del protagonista (e personaggio che intreccia la nostra saga a quella germanica dei Nibelunghi), è una regina e madre amorevole, ma non esita a vestire i panni di una valchiria, alla testa di un esercito che darà man forte a quello dei figli in una guerra all’ultimo sangue.
Eppure, sentiamo anche in questa estraneità il pregio della Saga di Ragnarr (che è quello di tutti i buoni libri): grazie a una buona mediazione, le storie e le culture più diverse diventano, se non assimilabili, almeno comprensibili. E la comprensione è sempre il mattone che avvia la costruzione del resto del ponte.

La saga di Ragnarr è stata composta da varie fonti di epoca medievale, a partire dal XI secolo circa (ma forse anche da prima), e ha subìto l’influsso di molta cultura orale. La versione del testo scelta per l’edizione di Iperborea è la più completa giunta fino a noi. Si rimanda alla prefazione di Marcello Meli per le delicate questioni di carattere filologico e storico.
Il personaggio di Ragnarr è sicuramente noto al pubblico contemporaneo anche grazie alla serie TV Vikings, ideata e scritta da Michael Hirst, che ha per protagonista, col volto dell’attore australiano Travis Fimmel, proprio l’eroe della nostra storia.

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Dopo la laurea in lettere, Igor Agnesi studia editoria e comunicazione all’Università degli Studi di Milano. Collabora alla realizzazione di un’accattivante rivista brianzola, che ha nome “La Beula”, con articoli e interviste. Karateka per caso (almeno all’inizio); amante discreto di letteratura e videogiochi. In un’altra vita astronauta, biologo e paleontologo. Igor Agnesi è nato a Erba nel 1994 e da allora vive (nella ridente Anzano del Parco, in provincia di Como, ma ha visto anche altre parti del mondo e ne vorrebbe vedere altre. E altri mondi, magari).

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