Il pazzo dello zar, scritto in prima persona, ha la forma del diario che il narratore redige per tentare di venire a capo del mistero che circonda la vita del cognato Timo von Bock, un tempo brillante ufficiale dell’esercito e amico intimo dello zar, appartenente a un nobile ma decaduto casato estone. Dopo essere caduto in disgrazia a causa di idee eccessivamente progressiste e liberali, che ha l’ardire di esplicare sotto forma di un memoriale nel quale si appella al sovrano chiedendogli di impegnarsi per garantire maggior giustizia sociale, Timo trascorre dieci anni in prigione prima di essere rilasciato in seguito a una diagnosi di follia. Raggiunto dalla famiglia, Timo viene confinato in una tenuta di campagna non lontano da Riga, dove è costantemente sorvegliato dalle spie del nuovo zar, intenzionato a scoprire se la sua follia sia simulata.
Attraverso il diario, scopriamo gli antefatti del romanzo, la mentalità aperta e sinceramente progressista di Timo e il reale affetto che lo lega il protagonista allo zar Alessandro, che pure non ha il coraggio né di salvarlo dalla prigione, né di mettere in atto le riforme richieste, delle quali è intimamente convinto.
Il libro, costruito come un romanzo storico nel quale si percepisce un’eco della grande narrativa ottocentesca, ci lascia volutamente nel dubbio di quanta parte di verità e di finzione sia in esso contenuta, ma ci permette comunque di farci un quadro preciso e potente di quella Russia arretrata, chiusa e soverchiante contro la quale solo la voce di un folle osò levarsi: la follia di Timo, vera o presunta che sia, è costituita dalla sua sfida in solitario a un potere che appare invincibile, facendo appello non tanto ai sentimenti di rivolta, quanto all’amicizia lo lega allo zar e in nome della quale si sente autorizzato a impetrare pietà per l’intero Paese
Il pazzo dello zar offre, inoltre, una straordinaria carrellata di personaggi ben costruiti e credibili, che danno ulteriore spessore alla narrazione: dalla combattiva Eeva, la giovane contadina che Timo ha sposato e che ne condivide battaglie e destino, al fratello di lei, Jakob, io narrante e alter ego dell’autore, alle cui perplessità Jaan Kross affida numerose riflessioni di ordine sociale e filosofico, che acquistano maggior interesse se si considera che il libro fu scritto negli anni Settanta del XX secolo, quando l’Estonia era ancora parte dell’URSS e già era pervasa da fremiti indipendentisti, a causa dei quali era attentamente sorvegliata da Mosca; lo stesso Kross trascorse diversi anni in un gulag e il suo romanzo venne censurato.
Lettura insolita, forse, ma di spessore e avvincente: lo consiglio.