Gli spazi nell’aria elettrica si separano
in ritmi circolari, mentre l’esile
grazia delle tue braccia e le caviglie tintinnanti
descrivono una topografia geometrica, reale, cosmica,
la stessa che un tempo riverberò continua
nel cortile prescritto di un tempio antico
nell’India del sud. Le tue palpebre sbattono e flirtano, e
rivaleggiano con la sottile abhinaya in un palpito
di ciglia, mentre le pupille creano un
focus insolito, una vista che solo i muscoli ciliari
benedetti e ammantati di kajal celeste
potrebbero forse attuare.
La lucentezza grezza della seta kanjeevaram, del
tuo respiro, e la nobiltà dell’argento antico
adornano te e la tua danza, rammentandoci lo
scrigno del tesoro che è solo
semi-esposto, dischiuso quanto basta, appena —
l’arte nella sua forma più pura non rivela mai tutto.
Anche dopo che le luci ad arco sono da tempo svanite,
il pubblico, ora invisibile, è rimasto.
Qui vedo ancora le tue piroette, congelate
come esposizioni time-lapse, sento
l’ombra mormorante dell’intricato raag
del musicista in questo teatro di buio,
un buio dove ricordi obliqui dei miei
quieti giorni di Kalakshetra filtrano,
combaciano coi tuoi di un’altra volta,
dove il buio stesso è luce che dorme,
luce che fonde, rimodella e accende,
danzando delicata nella penombra.
Ma è questo sacro buio che permane,
scioglie la luce nel desiderio, desiderio che ribolle
e incendia il fulgore della tua
quieta femminilità, mentre la danzatrice
ora illumina tutto il visibile: chiara,
poetica, appassionata, pura come ghiaccio.
Traduzione di Andrea Sirotti