Giorgia Boragini – Lo strano caso di Elda Rodriguez

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Il giorno in cui l’avrebbero uccisa Elda Rodriguez si alzò alle sei del mattino, dopo una notte di sogni confusi. Un sogno irrisolto lascia un’ombra sulla giornata: gli accadimenti appaiono provvisori e senza senso, come un mosaico che non si vuole ricomporre, o un romanzo incompiuto.
Per settimane un’oscurità densa rimase ad aleggiare su quelle ore, anche se noi in seguito ricostruimmo meticolosamente tutto ciò che avvenne, fin quasi a comprendere i pensieri e il respiro dei protagonisti. Con Josè Alvarez il farmacista e Santiago Pulido, il figlio maggiore della signora Solana, nei primi tempi dopo il fatto, si discuteva dunque a lungo, nelle bettole di Belmonte, seduti fino all’alba al tavolo da gioco, fra il fumo dei sigari, nella luce incerta delle candele.
Dal momento che avevamo assistito a tutto, senza in realtà vedere nulla, dopo, per mesi, scandagliammo ogni istante di quella giornata. Saremmo forse dovuti intervenire? Nessun vero uomo s’immischia nelle questioni d’onore di un altro: sarebbe un po’ come fiutare le lenzuola stropicciate di un letto altrui. Non si fa. Eppure ancora oggi ci tormenta il ricordo di Elda Rodriguez; possiamo vederla con gli occhi della mente, e perfino toccare la sua capigliatura lucida, baldanzosa nel mattino.
Tutto ci è stato raccontato per filo e per segno: di come, ad esempio, lei si era alzata e pettinata i lunghi capelli, dopo quella notte di sogni confusi, prima di avviarsi al lavoro da Mama Béatriz, dove la spola corre rapida sul telaio e uccelli del paradiso, tucani variopinti, giaguari maculati prendono forma sulle tovaglie e sulle coperte che fanno la gioia delle signore della capitale. In un baluginare di dentature candide, le mulatte di Béatriz Solana de Pulido, per tutti Mama Béatriz, si schiudono al riso fra scherzi e canzoni, e intanto fanno a gara a chi tesse più tela.
Pioveva ormai da tre mesi, e le strade della nostra cittadina di Belmonte erano un unico pantano, mentre un’afa opprimente spirava dalla terra e l’odore delle foglie di banano bagnate si sprigionava nell’aria. Dalla foresta si librava, trattenuto in un sentore di marcio, il brulichio della vita.
Elda, con la sua mantella rossa, si incamminò per il sentiero dietro le case. Gli stivali di gomma sguazzavano nel fango sotto la gonna fiorita che le ondeggiava sulle gambe tornite e dorate.
Come un tempio pagano, la chiesa di Belmonte si erge, immensa, sulla tozza altura che dà il nome alla città. La giovane donna sostò nella radura fradicia fissando la facciata di pietra sbrecciata, una muta preghiera nella mente, incurante della pioggia che le inondava il viso. Non osò entrare e presto riprese il cammino.
Dall’immenso caseggiato di Mama Béatriz, sulla piazza principale della città, giungeva già il consueto cicaleccio, più forte persino del frastuono dei telai. La grossa Inès se ne stava sulla soglia. Aspettava l’arrivo di operaie e segretarie agitando il ventaglio e sbuffando per l’insopportabile bollore dei suoi cinquant’anni suonati e dell’enorme pinguedine.
«Un caffè, signorine?», sospirò con voce affranta mentre un sorriso bonario le si apriva sul faccione lucido. Senza attendere risposta, versava lo scuro liquido fumante e proseguiva il suo giro, con l’enorme thermos in mano, fra i telai e le macchine per cucire, apostrofando una per una le ragazze.
Elda, portando alle labbra la tazza, notò in un angolo la sua amica Maria Mercedes Delgado, ma quella abbassò gli occhi senza salutarla. Subito le occupazioni della giornata presero il sopravvento. Elda e Maria Mercedes entrarono in ufficio senza pronunciare una parola, indossarono il grembiule e si chinarono diligenti sui registri della contabilità.
Nella stanza attigua anche Béatriz Solana de Pulido si preparava ravviando la complicata acconciatura di riccioli biondi e inforcando gli occhiali. Non si decideva a uscire dalla sua tana per andare fra le dipendenti a incitare, dare disposizioni, incoraggiare con quella sollecitudine di madre che tutti hanno sempre riconosciuto a quella vera signora fattasi commerciante.
Anche per lei c’era stata una notte insonne. «Pazienza, – si disse – bisogna affrontare la questione. Devo capire come stanno le cose. Tutto si può aggiustare con un po’ di buonsenso». Si alzò dalla scrivania, tolse le scarpe col tacco, fece scivolare i piedi gonfi nelle pantofole e anche per lei la giornata ebbe inizio.
«Non devi pensare che io ce l’abbia con te a causa di mia figlia Clara». Mama Béatriz aveva pensato che fosse meglio venire rapidamente al punto con Elda Rodriguez.
Elda sedeva, rigida, nell’ufficio della sua padrona. Da quando due giorni prima si era confidata con Maria Mercedes la situazione era precipitata: le ragazze facevano a gara nel consigliarle dottori compiacenti, filtri e intrugli. Soprattutto concordavano su un punto: mai confessare, sempre tacere. Erano tutte abili sacerdotesse dell’inganno e dell’intrigo. Ma intanto il segreto di Elda non era più un segreto, e la voce si era diffusa per ogni dove.
«Sono preoccupata per te, non lo capisci?», riprese Mama Béatriz. «Ho sentito dire che Martìn lo ha scoperto. Potrebbe fare qualche sciocchezza. Mentre Antonio…». La signora Solana era in difficoltà soprattutto a causa dell’evidente imbarazzo e riserbo di Elda, mentre ormai a lei di Antonio non importava nulla. Doveva trovare il modo di ficcarlo bene in testa a quella ragazza cocciuta. Doveva convincerla che, per quanto la riguardava, se quell’uomo vanesio l’avesse presa in moglie avrebbe fatto solo il proprio dovere. Si augurava di tutto cuore che le promesse del giovane fossero più solide rispetto a quelle fatte a sua figlia Clara.
«Aspetto Antonio per stasera. Partiremo. Mi dispiace, signora, avrei dovuto scriverle una lettera di dimissioni, invece… è precipitato tutto, mi comprende?».
«Sì, capisco. Avresti dovuto parlarmene prima. Non per le dimissioni, ma per te stessa, per proteggerti. Non pensi che Martìn potrebbe cercare di farti del male?».
«Tutto questo ormai è nelle mani di Dio». Pareva abbattuta, rassegnata. Chiuse gli occhi e si abbandonò sullo schienale della poltrona.
«Aiutati che Dio ti aiuta. Ormai è tardi per sbarazzarsi del bambino, ed è anche inutile visto che Martìn sa già tutto. Pazienza. Devi restare qui fino a quando verrà Antonio a portarti via. Lo farò cercare alla stazione, alla fermata dell’autobus, o dovunque arriverà. Qui Martìn non oserà… Manderò comunque a chiamare qualcuno per fare buona guardia. Non uscire per il pranzo, non è prudente».
«Va bene, resterò qui fino a stasera, se lo desidera», concluse Elda alzandosi. Una strana apatia si era impossessata di lei.
Mama Béatriz stava già afferrando la cornetta del telefono.

* * *

«Ite, missa est». In un guizzo il prete era sceso dall’altare.
Padre Alfonso doveva aver avuto il suo pallido sguardo da gufo del malaugurio, quando quello sventurato giorno, subito dopo la messa mattutina, si era rivolto rudemente a Martìn Garcia spingendolo fino a mandarlo a sedere su una panca della chiesa. Questa almeno è l’opinione del mio amico Josè Alvarez, che, come tutti i farmacisti, non ha il dono della fede e non può sopportare i preti. Per me, invece, il parroco è solo un innocuo tacchino spennato, la cui voce stridula doveva essere suonata strana a Martìn, che, grande e grosso com’è, si era visto apostrofare con imprevista energia dall’esangue ecclesiastico.
«Via, che vuoi fare, adesso?», gli disse padre Alfonso stringendogli la spalla con forza.
Il giovane lo guardava con occhi spiritati e assenti, mentre la pistola gli scivolava di mano rimanendo pericolosamente in bilico sul bordo del sedile di legno.
«Io… devo…». La sua voce si perse in un bisbiglio indistinto, e lui si accartocciò scuotendo i riccioli neri.
«Tu non devi niente. Faresti bene ad andartene a casa, invece». Con occhiate rapide il prete cercò di indovinare se fossero davvero rimasti soli nella navata immersa nell’ombra. Spesso un orante giudizioso, un penitente, un questuante, una bigotta, quando si attardano più del normale, possono diventare testimoni inconsapevoli e del tutto inopportuni di segreti e misfatti. Quel giorno, tuttavia, solo la vecchia Sanchez se ne stava estatica davanti alla statua della Madonna Addolorata. Non si era certo accorta di nulla: né dello scatto di Martìn, in agguato sulla soglia della chiesa, intento a cogliere l’attimo del passaggio di Elda, né dell’inseguimento discreto ma efficace messo in atto da padre Alfonso che, indovinando le intenzioni del giovane, era riuscito a fermarlo appena in tempo.
In seguito disse che era stata la mano del Signore a guidarlo. Perché dunque la destra dell’Onnipotente non gli aveva consentito di portare a compimento l’opera e salvare così una vita? Quasi ogni sera, per molto tempo, con don Josè e con Santiago Pulido, il figlio di Mama Beatrìz, ci siamo ripetuti le battute di quel dialogo fra sordi.
Sappiamo bene, infatti, che Martìn scattò dalla panca come un indemoniato gridando: «Ma lei… con un altro! Come si può sopportare?».
«Le cose non sono sempre come sembrano», bisbigliò il prete, mollando di colpo la presa e cercando di nascondere la pistola con la tonaca. «Anche se le azioni di Elda ti hanno offeso, devi riconoscere che ti ha parlato con sincerità. E ora il bambino che lei aspetta è qualcosa di sacro. Questo giovanotto di Medellin è di buona famiglia e sembra che abbia intenzioni serie. Pensa che lei avrebbe potuto tenerti all’oscuro di tutto e invece, pur avendo peccato, ora cerca di condurre le cose alla luce del sole».
Martìn si agitò ancora di più, senza dire una parola, come un animale preso in trappola. Dunque tutto il paese lo sapeva. Tutti sapevano e di certo lo deridevano. Fino a quel momento si era illuso di essere l’unico, oltre a Elda, a conoscere la verità, ma ora si rendeva conto di essere venuto a conoscenza del tradimento per ultimo. Ancora più necessario gli apparve dunque ristabilire pubblicamente il suo onore. Dell’altro non gli importava, e del resto era fuori della sua portata: un tizio di Medellin in vacanza, ospite di riguardo dei Pulido, un buon partito (uno dei tanti!) cui Mama Béatriz aveva messo gli occhi addosso per quel mostro di sua figlia Clara, e guarda come è andata a finire… che schifo! Perché mai Elda aveva parlato, perché? Perché ora lo costringeva a un’azione che gli ripugnava, ma che era suo preciso dovere compiere?
«Lo so che ti senti ingannato, ferito nell’orgoglio», continuò padre Alfonso, con voce monotona, «ma devi trovare il modo di perdonare. Il Signore ci insegna che la vendetta non è la soluzione. Risparmiando lei, e il bambino che deve nascere, salvi in realtà te stesso. Vedrai che, anche se ci saranno delle chiacchiere, presto si placheranno. E poi, venire in chiesa armato è un sacrilegio. Io ti scuso perché comprendo la tua ira. Ma è un sacrilegio bello e buono».
Martìn si riscosse e si alzò in piedi lentamente. Il prete indietreggiò, ma il giovane si limitò a fissarlo senza parlare e senza muoversi.
«Devi ragionare, Martìn», riprese allora padre Alfonso. «Solo la ragione ci distingue dagli animali. E anche la fede, certo. Cerca di pregare e di perdonare», concluse in fretta. Quel breve colloquio gli aveva prosciugato le forze. Voleva che Martìn se ne andasse. Lui aveva fatto la sua parte, il resto era nelle mani di Dio. Con orrore gettò nuovamente lo sguardo sulla pistola. L’afferrò con circospezione e fece per consegnarla al giovane, che si ritrasse.
«La tenga lei, padre, per favore. Mi creda, è meglio. Temo che potrei combinare dei guai».
«No. Io non tengo armi. Va’ a consegnarla al capitano Andreani».
Martìn si rianimò, e il suo tono di voce si fece concitato: intravedeva una piccola speranza. «Che c’entra il capitano? Lei mi ha fermato, padre, e adesso è lei il custode del mio onore. Se avessi con me la pistola, dovrei uccidere Elda. Invece, se ora tiene lei la pistola, tutti sapranno che io ci ho provato a fare il mio dovere, ci ho provato seriamente, e il mio onore sarà salvo, saremo tutti salvi, non capisce… non capisce?».
«No, Martìn, non capisco. Non posso andarmene in giro con un revolver per darti soddisfazione».
Il giovane allora riprese l’arma e uscì senza dire altro. Avrebbe dovuto compiere quanto era necessario.

* * *

Ecco dunque gli avvenimenti che abbiamo ricostruito con tanta cura. Mi rendo conto solo ora che in fondo si tratta di poca cosa, ma è quanto ci è bastato a tenere impegnata la mente, a non farla naufragare in infinite congetture nelle lunghe sere di noia. Per anni la cronaca di quella giornata fu oggetto delle più minuziose indagini, e niente poté rimanere celato all’opinione pubblica, nemmeno i più segreti pensieri dei protagonisti.
Ciò che io posso dire per esserne stato testimone oculare è che, quella mattina, solo verso mezzogiorno la piazza di Belmonte si animò. Solo allora, disperando della possibilità di una schiarita, le servette indie affollarono il mercato per fare la spesa.
Io, con Josè Alvarez il farmacista e Santiago Pulido, il figlio maggiore della signora Solana, stavo sorseggiando un buon Porto al Café Progreso. Alcune madri aspettavano, riparandosi sotto la tettoia della fermata dell’autobus, che le figlie uscissero dal caseggiato di Mamà Béatriz per la pausa. Avrebbero gustato insieme, al riparo delle larghe foglie degli alberi del parco, le prelibatezze appena acquistate.
Solo, in un angolo, isolato da tutti, si notava Martìn, con gli occhi cerchiati e lo sguardo smarrito. Chi aspettasse e perché non era un mistero per nessuno.
Don Josè lo indicò con un cenno del mento. «Non ho proprio voglia di assistere a un fatto di sangue senza poter intervenire», disse.
«Possibile che non si trovi qualcuno che cerchi di calmarlo?», replicai a mia volta con una domanda che dovette apparire vanamente retorica.
«Se non puoi farlo tu, Diego, non saprei proprio…». Il farmacista s’interruppe, distogliendo lo sguardo, chiaramente imbarazzato. Dal canto mio, mi strinsi nelle spalle e alzai il bicchiere per dimostrargli che non gliene volevo. Pensai che Martìn era un uomo ormai, dunque…
Ricordo che allora Santiago, sempre conciliante, chiuse il discorso rammaricandosi dei nostri usi barbari per cui un uomo è costretto a difendere pubblicamente il proprio onore. Si discuteva sorseggiando il Porto. Non sapevamo fino a che punto si sarebbe potuta spingere la cosa.
Intanto le operaie di Mamà Béatriz sciamavano nella piazza. Distoglievano lo sguardo e accennavano qualche passo di corsa davanti a Martìn Garcìa. Maria Mercedes Delgado uscì per ultima. Camminava svelta, stringendo in mano la borsetta. Garcìa le andò incontro, ma lei sgusciò fra la folla e gli sfuggì. Allora lui incominciò a girare in tondo per la piazza, indagando febbrilmente con gli occhi ogni cantuccio. Infine si fermò e puntò barcollando verso la fabbrica.
A quel punto si fece avanti il capitano Andreani, seguito da due guardie. Camminava di malavoglia, alto e dinoccolato, consapevole dei limiti della legge umana, che può intervenire solo quando il delitto è stato consumato, o almeno tentato; e anche di quelli della legge divina, su cui in realtà, da vero positivista, non faceva alcun affidamento.
«Garcia», ammonì il capitano, «che ci fai da queste parti? Se oggi non hai voglia di lavorare, va’ a casa e restaci. Non è il caso di ciondolare nella piazza in questo modo. Non mi costringere ad arrestarti per ubriachezza e vagabondaggio».
«Non sto facendo nulla di male, capitano. E non ho bevuto», rispose Martìn prontamente. A uomini come lui, e come noi, del resto, i tutori della legge ispirano rispetto e diffidenza a un tempo. A occhi bassi, ma a schiena diritta, il giovane fronteggiò il terzetto.
Con uno stanco cenno del braccio, Andreani ordinò ai suoi uomini di perquisirlo. Nessuno avrebbe potuto affermare che lui non aveva fatto il proprio dovere, anzi di più, perché perquisire uno che non sta commettendo alcun crimine… basta, è un abuso, lo sa chiunque.
Martìn non oppose alcuna resistenza: alzò le braccia e divaricò le gambe, mentre noi tutti assistevamo allo spettacolo.
Secondo alcuni in quell’istante si sarebbe verificato un fenomeno soprannaturale: una luce rossa nel cielo, sicuro presagio di sventura. Io posso affermare invece che sono tutte sciocchezze, superstizioni; non accadde nulla di simile, anche se un gruppetto di donne prese a farsi segni della croce. Ciò che vidi fu la pistola, trovata addosso a Martin Garcia e consegnata al capitano. «Questa la prendo io», disse Andreani. «E ti avverto, ragazzo, va’ a casa, o finirai al fresco». E fece cenno a una delle guardie perché lo seguisse con discrezione.
Solo più tardi, quella sera, davanti a un buon bicchiere (non si può dire che non ne avesse bisogno!), l’altro milite, Mario San Romàn, si abbandonò alle confidenze: «La pistola va bene, ma se a un uomo togli il coltello, cosa gli resta? Quello, mi capite, gliel’ho dovuto lasciare».

* * *

Per anni, dopo, ci chiedemmo come fossero andate realmente le cose. Si presentavano a noi solo i nudi fatti che, incastrati fra loro, non bastavano a farci capire perché il delitto fosse stato consumato. Per questo ci sforzavamo di evocare ogni avvenimento senza riuscire a penetrarne il senso. Spesso il canto del gallo ci trovava svegli a discutere nel fumo di una taverna, fra le carte da gioco e i profumi del vino, delle donne, della notte.
La conclusione, verso l’alba, era però invariabilmente questa: che eravamo stati tutti ciechi e stolti, ingannati dalla condotta ambigua di Martìn. Ecco, ci dicevamo, abbiamo creduto che non la volesse uccidere davvero, che gli bastasse fare la commedia. E in fondo, già quel giorno, sulla piazza, si erano formati due partiti: quelli che sostenevano che poteva bastare, che l’onore era comunque salvo, e quelli persuasi invece che il giovanotto non ci aveva davvero voluto provare fino in fondo, e che quindi era solo un vile cornuto.
Più di ogni altra cosa ci sfuggiva l’essenza di Elda Rodriguez: la sua persona, i suoi pensieri. Per noi era in tutto e per tutto più inconsistente di un fantasma. Non riuscivamo a capire che cosa avesse provato nelle lunghe ore trascorse aspettando la fine o sperando nella salvezza, in un futuro felice accanto all’uomo che amava.
I fatti stessi si confondevano con le illusioni. Ad esempio fu impossibile spiegare perché Inès, verso le sei di sera, avesse creduto di vedere dalla finestra una sagoma nella piazza deserta. Le sembrò che fosse una delle guardie di Andreani.
Il sole stava tramontando e una luce di sangue ferì gli occhi della grossa mulatta dal cuore sempre felice. Inès vide un’ombra dabbasso agitare il braccio in segno di invito. Si trattava certamente, pensò la donna, di Mario San Romàn, la guardia che aveva l’ordine di presidiare l’ingresso dell’edificio. Quella luce strana dopo mesi di pioggia, insieme alle grida degli uccelli che si preparavano per la notte, ingannò i sensi della donna che udì distintamente le parole: «Mandami la ragazza, l’accompagnerò io dal suo sposo».
Inès allora chiamò Elda e le disse di uscire dalla fabbrica perché il pericolo era cessato.
Lei scese dalla scala pronta alla fuga. Sulla soglia stava davvero Mario San Romàn. Il milite la guardò confuso: non si aspettava di vedersela comparire davanti, ma anche lui fu ingannato dall’ultimo raggio di sole che rifletteva – almeno così gli parve – l’ombra di un’auto che arrancava dalla strada per Medellìn. Allora l’uomo fu certo che non vi era più alcun rischio, salutò Elda e le augurò una vita felice. Lei uscì sulla piazza.
A Inès non parve cortese lasciare alla porta Mario San Romàn e così formulò il fatale invito: un bicchiere per riprendersi dalle fatiche della giornata. Ecco come fu che la guardia entrò nel caseggiato richiudendosi alle spalle il portone col catenaccio e salì le scale, compiendo il destino di Elda Rodriguez. La grassa mulatta lo stava aspettando sul ballatoio con una bottiglia di quelle buone in mano. Troppo tardi sentirono le urla della ragazza e i colpi del coltello che la inchiodavano, là fuori, sul legno del portone chiuso dall’interno.
Il sole tramontò all’improvviso e le nere nubi presero di nuovo il sopravvento. Rimase in mezzo alla piazza, nella pioggia sottile, Martìn, mio fratello, illuminato da un lampione, il coltello che stillava sangue ancora nella mano destra. Così lo trovò il capitano Andreani, subito giunto per arrestarlo. Fu solo allora che comparve in fondo alla via la vettura a noleggio mandata da Mamà Béatriz. Ne discese Antonio. Uscirono di casa le donne, e, in silenzio, presero ad addobbarla con i fiori come un carro funebre.

FINE

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Giorgia Boragini è nata a Bologna qualche decennio fa. Vive e lavora in quel di Brescia. Laureata in Giurisprudenza per necessità, accanita lettrice per passione, ama osservare il mondo per trarne talvolta qualche storia. Frequenta con impegno discontinuo laboratori di scrittura creativa. Il suo primo romanzo, "Il copione del delitto" (Liberedizioni, 2013), si è aggiudicato, da inedito, il secondo posto al concorso Manerba in Giallo, edizione 2011. Nel 2017 è stata pubblicata la sua raccolta di racconti "Tipi da Bar" (Prospero Editore). Con "Mai rovinare il pranzo di Ferragosto!" (Liberedizioni, 2019) è tornata a cimentarsi con il genere giallo.

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