Antonia Buizza – Sorellanza

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La sveglia catapultò Laura fuori dalle lenzuola alle sette e trenta precise. La donna marciò in bagno, poi in cucina, dove accese la tivù e si concesse il piacere di sorseggiare il primo caffè del mattino. Dallo schermo la maga Ornella le annunciò una giornata ricca di promettenti, ma non meglio specificate, opportunità. Confortata dai buoni auspici, con un sospiro fece ritorno in camera da letto dove, rassettata la stanza e raccolte le mutande e i calzini sporchi di Giacomo, che si era alzato prima di lei, iniziò a disfare le valige delle vacanze. La sera prima erano tornati che già faceva buio e quel mattino i bagagli ancora chiusi, che stazionavano davanti al letto, le ricordarono i suoi doveri di donna di casa. Osservò le borse con un misto di nostalgia e depressione, ma fu solo un attimo: non doveva perdersi in fantasticherie, se voleva andare al mercato. Per nessuna ragione al mondo, infatti, avrebbe rinunciato alla passeggiata settimanale fra i banchetti, dove intendeva sfoggiare la perfetta abbronzatura color caramello. Del resto il mercato era l’unico evento degno di nota nel piccolo paese immerso fra i vigneti, dove la gente si incontra sul sagrato la domenica o fra le bancarelle il giovedì.

La donna svuotò i bagagli, riempì la lavatrice, svegliò la bambina, Sofia, che dormiva ancora profondamente, le servì la colazione e finalmente poté occuparsi della propria immagine riflessa nello specchio del bagno. Osservò con aria critica i capelli arruffati, l’accenno di borse sotto gli occhi e le labbra sottili, scomoda eredità materna, che le aveva fatto più volte accarezzare l’idea del silicone. Armata di trucchi e pennelli, si mise al lavoro: il correttore fece sparire le occhiaie e un abile tocco di fard creò l’illusione di zigomi alti e pronunciati; con matita e mascara ingrandì gli occhi; infine si dedicò alla bocca, che rese turgida con un’abbondante passata di rossetto color ciliegia. Il viso che contemplò nello specchio la rassicurò che le ore passate su YouTube, a guardare lezioni di trucco, non erano trascorse invano. Spazzolò i capelli innaturalmente biondi e si infilò in un abito microscopico che metteva in bella mostra gambe e spalle ambrate. Dall’armadio afferrò la borsetta coordinata dove ripose, onde evitare di dimenticarselo, il telefono cellulare che custodiva le immagini, già postate su facebook, delle sue vacanze da sogno, come recitava lo slogan del villaggio. Rivolse quindi la sua attenzione a Sofia che seduta al tavolo della cucina ancora in pigiama, stava colorando le procaci forme delle Winx. Laura interruppe la sua concentrazione: «Su, amore, vieni dalla mamma! Ti devo fare bella perché dobbiamo uscire».

La bambina si lasciò condurre in bagno, dove fu lavata, profumata, rivestita e pettinata. La madre rimirò soddisfatta la propria opera: i riccioli erano stati domati da un elastico dorato e anche il vestitino nuovo, su cui spiccava la maliziosa scritta Sexy girl, fu guardato con approvazione. Sollevò la bimba fra le braccia e controllò le loro immagini nello specchio; poi, a dispetto dei cinque anni di Sofia e delle sue gambotte robuste, la caricò sul passeggino. Afferrata la borsetta, uscì di casa, non senza aver lanciato un’ultima occhiata al vetro della porta, nel quale si intravvedeva la loro silhouette. Con passo sicuro imboccò la via principale, in direzione della piazza.

Passando davanti al negozio di verdura, sbirciò nuovamente il proprio rilesso nella vetrina, proprio quando il fruttivendolo stava sistemando una cassetta di pesche mature. Laura arrossì, come colta in fallo e, per darsi un contegno, gli cinguettò un rapido saluto; ne ricevette in cambio uno sguardo carico di maschile apprezzamento. Sorridendo compiaciuta, giunse in vista delle prime bancarelle.

Stava già adocchiando un variopinto prendisole che svolazzava invitante, quando una voce la raggiunse alle spalle: «Laura, ma che abbronzatura! Quando sei tornata?».

Adele, la vicina di casa, la stava raggiungendo a rapide falcate. Era un po’ più vecchia di lei, di un’età indefinibile fra i quaranta e i cinquanta, resa ancora più incerta dagli abiti severi e informi che nascondevano la figura appesantita. Accanto a lei Laura si sentiva sempre snella e femminile; non erano propriamente amiche, tuttavia si invitavano talvolta l’una a casa dell’altra per un caffè.

«Siamo tornati ieri sera; stamattina mi sono accorta che il frigo era completamente vuoto, così mi sono decisa a fare una volata al mercato» mentì Laura.

«Complimenti: sei proprio in forma, si vede che ti sei rilassata. E tu, piccolina? Ti sei divertita al mare?» Sofia non l’ascoltò neppure, intenta com’era a indicare con insistenza una piccola carriola giocattolo esposta su un banchetto di casalinghi.

«Mamma, me la compri?».

«Amore, ma che ti viene in mente? Che te ne fai di una carriola?».

«Ma io la voglio!».

Laura non era in vena di scenate, che avrebbero mandato in fumo la sua agognata passerella, quindi si chinò sulla figlia e le suggerì a bassa voce: «Ma, amore, la carriola è un gioco da maschi, e poi è troppo grande per portarcela in giro… che ne dici invece di quella bella borsettina con i trucchi? O preferisci i pentolini?».

Di buon grado Sofia si lasciò convincere ad abbandonare la carriola in favore di una batteria di padelline, che fu riposta nel portapacchi del passeggino. Adele, che aveva assistito alla scena, commentò ridendo: «Brava, Sofia! Per una donna non è mai troppo presto imparare a cucinare!». «E qui, cos’è successo di bello durante la nostra assenza?» chiese Laura con simulata curiosità.

«Ma come: non hai saputo niente?».

«No, che è accaduto?».

«Ma possibile che tu non lo sappia? Era anche sul giornale».

«No, ti dico… siamo arrivati ieri e tu sei la prima persona con cui parlo». Gli occhi della donna adesso brillavano avidi di pettegolezzi, su cui la vicina era sempre aggiornata.

«Andiamo a prenderci un caffè che ti racconto!». Si diressero verso l’unico bar della piazza, affollato a quell’ora da massaie e pensionati. Faticosamente trovarono un tavolino libero, dove ordinarono due caffè e un tè freddo per la bambina, tutta presa dai giocattoli nuovi.

«Allora, mi racconti?». Laura incalzò l’amica, aspettandosi qualche succosa rivelazione sul bel don Cesare, troppo fascinoso per essere senza peccato, visto che la vicina era un’assidua frequentatrice della parrocchia.

Le sue speranze, però, dovevano rimanere inappagate. «Conosci Belometti? L’Armando?» iniziò Adele. «Quello che abita dietro la chiesa, il direttore di banca, lo conosci?».

«Sì, so chi è, gli devo aver parlato qualche volta nel suo ufficio». La voce tradiva la delusione.

«Ecco, qualche mattina fa, mentre andavo in chiesa per le lodi, ho notato un po’ di trambusto nella sua via. Mi è sembrato di vedere un’ambulanza e ho pensato che qualcuno si era sentito male». Qui fece una pausa, assaporando la rivelazione che sarebbe seguita. «Insomma, te la faccio breve: Belometti ha ammazzato la moglie».

Per un istante fra le due donne cadde il silenzio: una pregustava il piacere di narrare una vicenda che per il resto del paese era già storia vecchia, l’altra era troppo stupefatta di trovarsi sul luogo di un crimine.

«Ma dici sul serio? Ammazzata? Non si è trattato di un incidente?».

«Ammazzata, ti dico: strangolata. Sembra che sia stato lui, al mattino, a chiamare i carabinieri, perché il fatto deve essere successo la sera prima».

«Mi sembra incredibile». Laura ripensò a tutte le volte che aveva incrociato l’assassino e gli aveva rivolto il buongiorno, ricevendone in cambio un sorriso caldo e rassicurante. «A me Belometti è sempre parso una persona così tranquilla, così per bene. Era pure un bell’uomo». Già parlava di lui al passato, come se quell’individuo ancora giovane e piacente, protagonista di inconfessate fantasie romantiche, fosse passato a miglior vita.

«Guarda: nemmeno io ci potevo credere, ma è andata proprio così. Pare che quella sera lui e la moglie abbiano litigato; la discussione deve avere preso una brutta piega, lui non ha capito più niente e l’ha fatta fuori».

«Mi chiedo che cosa abbia fatto o detto lei per fargli perdere il controllo fino a quel punto. L’Armando non mi è mai sembrato un violento, anzi era così gentile. Le volte che gli ho parlato in banca, è sempre stato tanto disponibile. Ti giuro: mi pare impossibile».

«Mah, dicono che lei avesse un altro. Del resto era una bella donna» insinuò Adele.

«A me non è mai sembrata così bella, forse era un tipo. Certo non l’ho mai vista con un capello fuori posto. Ma quando una donna non ha figli, cosa vuoi che faccia se non andare dall’estetista e dal parrucchiere?».

«Quando mancano i figli in una coppia, manca tutto!» sentenziò Adele, incontrando la piena approvazione dell’amica.

«Son sicura che l’Armando li avrebbe voluti, dei figli: avessi visto con che tenerezza guardava la mia Sofia…».

«Chissà: forse non potevano averne. È anche vero che lui lavorava in banca, lei a tempo pieno dal notaio: se uno vuole dei figli, deve pur rinunciare a qualcosa, e lei non mi pareva il tipo che decide di lasciare la carriera per fare la mamma».

«Non dirlo a me, che per dedicarmi a Sofia ho dovuto lasciare il mio posto al negozio». Laura rivolse alla bambina uno sguardo che doveva sembrare intenerito. La piccola non la degnò neppure di un’occhiata, troppo impegnata con il tè e i giocattoli nuovi. «Checché se ne dica sulla parità fra uomo e donna, la mamma è sempre la mamma», riprese Laura, «e non è la stessa cosa per un bambino averla a casa tutto il giorno o solo dopo l’orario d’ufficio».

«È quel che penso anch’io. Non che voglia giustificare l’Armando, per carità! Ma quando una donna sta più fuori che dentro casa, non ci si deve stupire se la coppia scoppia».

«E adesso quel disgraziato si è rovinato la vita… Poveraccio! E poverina anche lei! Certo che ultimamente non si sente parlare d’altro che di femminicidio…».

«È davvero una tragedia, però nulla mi toglie dalla testa che le donne hanno le loro belle responsabilità. Quando vedo in giro certe ragazzine in minigonna o certe mamme che sembrano le sorelle delle loro figlie, non posso fare a meno di pensare che se la vadano a cercare. Lo dico sempre al mio Michelino: cercati una brava ragazzina, che non abbia troppi grilli per la testa».

Laura fu ben lieta di cambiare argomento: «Come sta Michele? È stato promosso?».

«Quasi. Ha un debito in matematica. Non è mai stato una cima con i numeri, però la sua professoressa è davvero una carogna. È dalla prima superiore che ce l’ha a morte con lui. È una che, davanti ai bei ragazzi come il mio Michele, non vede l’ora di mettergli un quattro. Dicono che va con le donne, ma io non ci credo. È anche vero che quelli col debito sono tutti maschi. Comunque il motorino gliel’ho regalato lo stesso a Michele, perché nelle altre materie aveva tutti sei».

«Hai fatto bene» approvò Laura che aveva un debole per quel ragazzino dalle sopracciglia depilate. «Che ore sono?».

«Quasi le undici» fece Laura leggendo l’orario sul cellulare e contemplando per un istante la propria immagine in costume da bagno che campeggiava sullo schermo.

«Le undici? Di già? Devo correre a preparare il pranzo, perché il mio Michelino mi ha raccomandato di mettere in tavola alle dodici e mezza in punto, che poi deve uscire. Se sgarro di qualche minuto, sai che musi lunghi? Quanta pazienza ci vuole con questi uomini!», fece Adele alzandosi dal tavolino.

Le donne si salutarono baciandosi sulle guance e promettendosi di vedersi nei giorni successivi per gli ultimi aggiornamenti sul caso Belometti.

Laura non aveva fretta: suo marito non rincasava mai a pranzo e lei poteva aggirarsi con comodo fra le bancarelle. Stava rimirando il prendisole fiorito che aveva notato appena arrivata, quando il suo sguardo cadde su un identico vestitino da bambina: fu un colpo di fulmine! Già vedeva il quadretto: madre e figlia mano nella mano (per l’occasione poteva rinunciare al passeggino), entrambe rivestite della deliziosa stoffa a fiori lilla.

Riscosse Sofia, mezzo assopita nella calura di fine giugno, e le annunciò: «Guarda, amore, che bel vestitino!».

«Non mi piace!».

«Ma come fa a non piacerti? Guarda: anche la mamma lo compra uguale!».

«Non lo voglio!».

«Ma, amore, non vuoi essere come la tua mamma? Poi lo indossiamo tutte e due e facciamo le gemelle…».

«Non mi piace! Voglio la maglietta di Superman!». Sofia indicava una maglietta blu, appesa in mezzo a tante altre con i supereroi.

«Ma, amore, non vedi che è da maschi? Guarda il vestitino com’è più bello!».

«Non lo voglio il vestitino, voglio la maglietta di Superman!». Accaldata e nervosa, la bambina non sembrava disposta a cedere. Richiamato dal tono della discussione, l’ambulante cinese della bancarella le stava guardando con curiosità. Laura arrossì imbarazzata, aprì la borsa e ne estrasse il portafogli. «Mi scusi», gli disse «vorrei questo vestito. È taglia unica? Sì? E anche questo piccolino per la bimba». Sofia incominciò a piangere, preludio a una delle sceneggiate che la madre conosceva bene. Prima che la situazione le sfuggisse di mano, Laura deliberò la resa; del resto le magliette non sono mai a sufficienza in estate.

«Anche la maglietta, per favore. Quella di Superman, sì».

Madre e figlia si allontanarono insieme; Laura già progettava la sfilata alla messa domenicale, dove avrebbe sfoggiato il vestito nuovo e la copia in miniatura di se stessa.

Sofia, invece, stringeva la maglietta fra le manine. Come un trofeo.