Anna Ettore – Solitudini

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Rilevò che anche quella mattina l’autobus era in ritardo. Solo di qualche minuto, per fortuna, ma abbastanza da costringerlo a correre per arrivare al lavoro in tempo.

Si grattò il naso perché il freddo gli provocava uno strano pizzicore.

Sospirò per la stanchezza: anche la notte precedente sua moglie non era riuscita a dormire, e lui aveva stentato a prender sonno a causa sua. Una leggera forma di depressione, le aveva detto il medico, forse dovuta all’avanzare dell’età: non aveva mai accettato il fatto di non aver avuto figli.

Erano solo loro due.

Si grattò ancora e cercò di allentare il colletto della camicia troppo inamidata.

Ci teneva che lui avesse sempre un aspetto ordinato, impeccabile. Era il modo che aveva sua moglie di difendersi dagli sguardi degli altri.

Chissà com’era capitato.

La mattina la prima ad alzarsi era lei: andava in cucina e preparava il tè per tutti e due. Con la prima tazza prendeva un analgesico che le facesse passare il mal di testa: già dall’alba le batteva ferocemente sulle tempie. Poi aspettava che lui si alzasse, fumando una sigaretta e guardando dalla finestra il muro grigio della casa di fronte.

Appena lui si sedeva gli portava il pane tostato e andava in camera per preparargli i vestiti da indossare quel giorno.

Negli ultimi anni la sua malattia le aveva fatto scegliere di abbandonare il lavoro e di restare a casa: in quel modo aveva pensato di potersi anche occupare di sé. Ma era sempre più difficile tenere assieme i frammenti disordinati di tutta la sua vita.

A volte le si confondevano le idee e in quei momenti, quando tornava dalla spesa, abbandonava i sacchetti vicino alla porta e si sedeva allo stesso tavolo della colazione cercando di ricordare una cosa che non riusciva a spiegare a nessuno. Era solo un’immagine, qualcosa di meno definito di un pensiero. Rivedeva, o credeva di rivedere, la casa in fondo alla via dove aveva abitato da bambina, e un’ombra vicino alla finestra che guardava fuori, verso di lei.

Quella figura le ricordava un volto, ma non sapeva dire a chi appartenesse. Forse a una persona che aveva conosciuto, che in qualche modo aveva incontrato e poi perso. Oppure, al contrario, si trattava di qualcuno che non aveva conosciuto mai.

Cercava di mettere a fuoco quell’immagine perché di certo nascondeva qualcosa di fondamentale, la soluzione di un mistero. Ma non ci riusciva mai.

Prima che lui tornasse si rialzava e metteva in ordine ogni cosa, sceglieva gli ingredienti e preparava la cena.

Le giornate a volte parevano scomparire: dal mattino alla sera in un attimo.

 

[*     *     *]

 

La sera trascorreva tranquilla tra la cena e la televisione: c’era sempre qualcosa da vedere. A volte si alzava per andare in bagno, quando proprio non riusciva a farne a meno, e si chiudeva dentro per guardarsi allo specchio.

Si metteva a fissare la propria immagine riflessa e lo smalto antico dei propri occhi, e quando il conto degli anni, del tempo passato e di ciò che restava davanti a lei non riusciva più a convincerla, si accovacciava a terra e tornava a pensare a quel volto che non riusciva a riconoscere. Le labbra sfocate che mormoravano un saluto, una parola…

Capitava che lui bussasse alla porta del bagno, nelle sere in cui si tratteneva di più, e allora si scuoteva dal passato e rispondeva: «Sì, adesso arrivo. Ho finito». Poi prendeva un paio delle sue pillole e usciva per affrontare l’ultima parte della serata, senza avere risolto il mistero.

Lui aveva smesso da tanto di farle domande che la mettessero a disagio. Vedeva lo sguardo spento che galleggiava nei suoi occhi e, con una forma di delicato pudore, abbassava lo sguardo.

La stanza da bagno poteva diventare un rifugio anche per lui che era a casa così poco. Nell’armadietto dei medicinali troneggiavano due diversi flaconi, faccia a faccia come due vite allo specchio. Rimaneva ad ascoltare il ronzio del televisore per un po’, senza rendersene conto, e quando il pesante silenzio della casa cominciava a penetrare anche lì, era come se un impercettibile comando lo richiamasse all’ordine: riapriva la porta e si preparava ad andare a letto.

Sua moglie si aggirava nella camera preparandosi per la notte; le vestaglie dai colori pallidi contribuivano a conferirle un’aria spettrale.

Lui si concentrava nelle letture abituali, una rivista sportiva o qualche racconto dal Reader’s Digest.

Era quando la luce si spegneva che le cose diventavano difficili: a volte si addormentava subito, altre si risvegliava nel cuore della notte o stentava a prendere sonno; allora anche lei prendeva a rigirarsi nel letto, come se soffrisse di un male fisico. Nel buio la sveglia ticchettava echeggiando nel silenzio.

Lui, nel segreto della sua solitudine, non era in grado di rispondere a tutte le domande che poteva zittire durante il giorno, né riusciva più a puntellare l’argine della propria desolazione.

In quegli istanti gli balzava nella mente, vivido e luminoso, il volto di quella donna sconosciuta che vedeva ogni giorno alla fermata dell’autobus. Erano anni che la incontrava senza avere mai osato rivolgerle la parola. Sola, riservata, austera. Eppure, chissà perché, lui la immaginava, dietro la sua anonima eleganza, inspiegabilmente calda e sensuale.

Da anni vedeva quel viso e ogni volta, senza nemmeno confessarlo a se stesso, sperava di riuscire a trovare il coraggio di parlare con lei.

Peccato che quel giorno non l’avesse vista passare.

 

FINE