Stefano Morzenti – L’algoritmo

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L’agente supervisore Malachia girò la chiave e spense il motore del suv. Sul cofano nero si rifletteva la pallida luce dell’unico lampione della via. Fece un cenno col capo. «L’edificio è quello. Secondo piano, appartamento 2B».
Sul sedile del passeggero la recluta Ismaele si sganciò la cintura di sicurezza. «Chi è l’obiettivo?».
Malachia si sfilò il guanto e premette il palmo sullo scanner biometrico del cruscotto. Il monitor si illuminò mostrando una lunga lista di documenti. «Apri il file CH934.».
Il ragazzo cliccò sull’icona e iniziò a sfogliare il dossier. «Donna, sposata, tre figli piccoli, lavoro part-time in una caffetteria, abbonamento in palestra, mai andata all’estero». Cambiò posizione facendo scricchiolare la pelle del sedile. «Di cosa è accusata?».
Il finestrino oscurato si abbassò di un dito e Malachia si accese una sigaretta. «Terrorismo».
L’altro sollevò un sopracciglio. «Questa qui? Tra una lezione di pilates e un consiglio di classe progetterebbe attentati?».
Il supervisore soffiò fuori una nuvoletta di fumo grigio. «L’Algoritmo ha previsto che tra diciotto mesi piazzerà un ordigno esplosivo in una stazione della metropolitana». Altra profonda boccata. «Ci saranno duecentotredici morti e più di seicento feriti».
«Un’altra detenzione preventiva?». Ismaele spense il monitor con una manata. «È la settima, questo mese. Di questo passo dovranno costruire un altro carcere supersegreto in qualche Paese del terzo mondo». Si chinò in avanti per vedere meglio il palazzo di fronte. «Non pensi che stiamo esagerando?».
«È il nostro lavoro» espirò Malachia insieme al fumo.
«Il nostro lavoro?». La recluta strinse le dita intorno al distintivo che portava sotto la giacca. «Il nostro lavoro dovrebbe essere quello di proteggere i cittadini, non di sequestrare le persone sulla base di un algoritmo».
La brace della sigaretta si accese un’ultima volta. «L’Algoritmo non ha mai sbagliato».
«Davvero?». Le nocche di Ismaele erano diventate bianche e i tendini affioravano tesi sotto la pelle. «E come facciamo a esserne sicuri, se ogni volta che quel maledetto computer fa bip noi corriamo a eseguire i suoi ordini?».
Malachia si massaggiò la fronte. «Credimi, ragazzo, faccio questo lavoro da più tempo di te. Il numero dei reati si è più che dimezzato e i crimini violenti sono meno di un quarto rispetto a prima». Schiacciò la sigaretta nel portacenere. «Per me è una prova più che sufficiente».
«E come facciamo a sapere che, tra tutte le persone che abbiamo arrestato in questi tre anni, non ci sono anche degli innocenti? Quelli che il manuale chiama errori statistici?».
Malachia chiuse il finestrino e rimase in silenzio.
Ismaele puntò il dito verso il palazzo di fronte. «Questa donna, Claire… ti sembra plausibile che tra poco più di un anno diventi una terrorista?». Provò a riaccendere il monitor, ma senza successo. Lasciò perdere. «Stiamo per rinchiuderla in una cella tre metri per tre per i prossimi dieci o vent’anni e l’unica prova cha abbiamo è la previsione fatta da un programma informatico!».
Malachia scosse la testa, la voce bassa. «Tra le vittime ci saranno anche un viceministro e la sua famiglia. È stato classificato come un attacco allo Stato». Fece una lunga pausa. «Nessuna reclusione».
Il volto di Ismaele sbiancò. «Aspetta… Vuoi dire che ci hanno ordinato di uccidere una donna innocente?».
«È una terrorista».
«No che non lo è, non ancora, e forse non lo sarà mai». La voce gli tremava e incespicava sulle parole. «Oggi è solo una mamma che tira su tre figli e non ha ancora fatto niente di male. Niente di niente». Si tolse il distintivo e lo sbatté sul cruscotto. «Anche i computer sbagliano!».
Malachia gli mise una mano sulla spalla. «Il protocollo prevede…».
«Che si fotta il protocollo! Io me ne vado». Tirò la maniglia, ma la portiera rimase bloccata.
«Mi dispiace, ragazzo, ma l’Algoritmo aveva previsto anche questo».
Ismaele non fece in tempo a reagire. Una piccola puntura al collo e fu pervaso da un senso d’intorpidimento. Annaspò e tutto divenne buio.
Malachia gli tastò il polso, lento e regolare. Avrebbe dormito per tutto il tempo necessario.
Sospirò. Purtroppo l’Algoritmo non sbagliava mai.
Sfilò la Beretta dalla fondina, avvitò con cura il silenziatore e scese dall’auto.
«Mi dispiace, ma io non sono responsabile». Chiuse lo sportello e si avviò verso il portone del palazzo. «Io eseguo solo gli ordini».

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