Vi racconterò la storia di Ciclón mentre mi spazzolo i capelli. Lui si chiamava in realtà Justicia e da piccolo aveva lavorato come mulattiere, un mestiere tranquillo. Le vaste pianure andaluse erano state il suo unico mondo e le mule la sua vita.
«Ci vuole tenacia per fare il mulattiere. Piuttosto che restare a mani vuote, devi strappare un orecchio, o le zampe del tuo animale, perché devi sottoporre la tua vita a quella del gregge, è nella Bibbia, ragazzo!», gli dicevano i padroni.
Justicia passava tante ore da solo osservando gli animali, li chiamava per nome e loro giravano la testa ruminando lenti con lo sguardo abulico. Quante volte li aveva rincorsi, sotto la pioggia verde, sguazzando nel fango viscido, coprendosi di ghiaccio con l’unica compagnia delle stelle… era molto orgoglioso del suo lavoro, non gli mancavano le energie. Non veniva mai punito. I padroni sono giusti, si ripeteva.
Aveva sedici anni e il suo corpo era quello di un gigante. I pettorali erano una protuberanza ellittica, un nucleo battente pronto a esplodere. La testa piccola e la cintura stretta esaltavano il promontorio del torace.
Eppure la sua forza non proveniva dai muscoli. Non si era mai accontentato di conoscere a memoria il linguaggio dei fiori, i segreti degli alberi o le canzoni del Guadalquivir. Da qualche tempo si era messo a frequentare la scuola sociale.
I padroni sono buoni, si diceva mentre si raccomandava di non sentire le urla che arrivavano da dietro gli ulivi. Con il sole alto nel cielo, leggeva libri, allegro come al solito, anche se la notte dormiva scomodo.
«Sarà il risveglio dei sensi!» gli dicevano i padroni dandogli una pacca sulla spalla. Donne con rossetti vivaci e dalla montatura facile, iniziarono a visitarlo la sera lasciandogli cavalcare il disagio della sua anima.
I padroni sono spiritosi, sorrideva amaro tentando di non pensare.
Alcuni fiori erano diventati cardi, ortiche urtanti e gli alberi disegnavano ombre contorte, con delle braccia nude e sarmentose. Le pietre ribollivano. Allora cavalcava quelle donne più violentemente, da dietro, senza guardarle negli occhi, strappando loro i capelli, per non capire, per rimanere intrappolato nella sua sordità.
Ma le stelle non lo lasciarono solo. Era la notte di Santiago e il Jerez, correndo lungo le vene di Justicia, risvegliò i grilli della solitudine. Azucena gli diede la mano e lo portò sotto un ulivo. I suoi occhi luccicavano come astri fuggenti.
Comprese che era una fata, fresca come la rugiada, lussureggiante come un bosco colmo di felci. La ragazza si scoprì un seno sottile e invitò il ragazzo a coprirlo. Le cosce socchiuse di Azucena gli sembrarono di madreperla.
La desiderava come mai aveva desiderato altre donne. La penetrò con dolcezza. Sentiva il respiro della ragazza abbandonarsi mentre i loro sessi si sorprendevano l’un l’altro fluendo come un ruscello con pesci novelli.
Dopo l’orgasmo risero e si abbracciarono fino all’alba sbocciando sorrisi: «Azucena, tu sei l’Orsa Maggiore».
Giunse il grido rauco del gallo che cantava la morte. I due innamorati si svegliarono di scatto avvolti nell’eco delle grida del mulattiere Antonio.
Lo videro che cercava di correre ma l’anca non era più quella di un giovane, la schiena curvata dalle ernie lo spingeva in basso. Giunsero tre caporioni a bastonarlo. «Inutile, bestia!». Qualcosa si spezzò, si aprì un pozzo nei polmoni: «Non mi dire che tossisci, bastardo!».
Ciclòn non ce la fece più, prese delle pietre che scagliò con forza contro i padroni, colpendoli alla testa, agli occhi, alle orecchie… Fu così che capì che in guerra si sarebbe schierato tra i repubblicani. Poi, la condanna ai lavori forzati sulla ferrovia della costa basca. Eppure io lo convinsi del contrario.
Gli dissi: «Ciclón, ho filato per te un ponte d’oro con i miei capelli. Osin Iluna ti aspetta con fiumi di latte celeste».
Quella mattina Onofre cammina lasciandosi trasportare dai piedi.
«In che punto cardinale mi trovo?».
Si ferma sul binario della ferrovia e vede sull’altro lato, come in uno specchio, Ciclón che si dirige verso la galleria. Entra e non esce. La mano del capoccia è sul detonatore.
«Non è uscito! Fermo!» urla Onofre.
Qualcuno lo butta per terra: «Tutti giù!».
L’esplosione fa saltare per aria Ciclón. Onofre si alza in piedi e corre verso il capoccia:
«L’hai ucciso, maledetto fascista!».
Onofre prende in mano dei sassi e li lancia con forza contro il capoccia, e lo colpisce alla testa, agli occhi, alle orecchie…
FINE