Marinella Farella – Il gioco

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1964

Nell’ombra viola della sera il frinire dei grilli risuonava basso come una litania. Ma c’era un punto, giù al centro della conca erbosa dove i cipressi svettavano in un girotondo contro il cielo, in cui il suono echeggiava così intenso da diventare quasi gazzarra. Là, sotto le fronde azzurrognole, i visitatori del vecchio camposanto affrettavano il passo, perché nessuna tomba era posata in quel luogo e nessuna panchina invitava al riposo contemplativo. Ma chi si fosse fermato ad ascoltare con maggiore attenzione, invece di tapparsi le orecchie con una smorfia di fastidio, avrebbe riconosciuto voci che non avevano nulla a che fare con i piccoli ortotteri neri.

«Cerca di deciderti, vecchia rimbambita. S’è già fatta notte! », gracchiò una figuretta scura acciambellata sul prato.

«Sii paziente, Numero Uno. Certe risoluzioni non vanno prese in quattro e quattr’otto. Bisogna vedere, considerare, valutare…», mormorò qualcun altro in tono annoiato.

«Valutare? Considerare? Ragiona, Numero Due: quando mai questa canaglia ha compiuto una valutazione oggettiva?».

«Che cosa faresti, tu? Sentiamo», intervenne una terza voce, gelida come un lago ghiacciato.

Numero Uno si sollevò con un saltello. Nella luminosità residua fece capolino un volto rugoso, leggermente asimmetrico, sopra un vecchio corpo ingobbito. «Io? Perché diavolo me lo chiedi? Dovrei starmene zitta, io! Ognuna deve badare ai suoi compiti, me lo ripeti sempre».

«Non serve a molto, visto che continui a immischiarti nel mio lavoro».

«Sei tu, brutta strega, che t’impicci nel mio! Io faccio le cose per benino, e tu rovini tutto!».

Numero Tre, alla quale erano rivolte queste parole rabbiose, alzò un sopracciglio spelacchiato. «Ce la giochiamo?».

«Giochiamocela pure. Ma non imbrogliare, o non ti guarderò più in faccia».

Numero Due, che aveva rinunciato a comporre la lite, strinse a sé il cesto sfilacciato che giaceva poco distante, sull’erba, e fissò le labbra delle sorelle per afferrare meglio il senso di ciò che dicevano. «Io farò l’arbitro», sussurrò quando ebbe intuito che cosa stava per accadere. Dall’indolenza dei suoi movimenti, però, si vedeva benissimo che non ne aveva voglia.

Il canto dei grilli si fece ancora più insistente. Adesso era quasi assordante, ma le vecchiette non sembravano esserne disturbate. Numero Tre frugò con lentezza esasperante in una tasca del sudicio grembiule, estraendone un piccolo dado bianco che porse alla sorella con un sorrisetto. «Chi vuole iniziare?», domandò.

«Prima la posta», borbottò Numero uno.

«Prima le motivazioni della posta», cantilenò Numero Due.

«Va bene», rispose Numero Uno, digrignando gli unici tre denti che le erano rimasti. «Guardate solo com’è cominciata. Sua madre non lo voleva, suo padre nemmeno: non sapevano come mantenerlo. Non doveva proprio nascere, quel frugoletto dai capelli neri».

«Questa è tutta colpa tua. Ne convieni?», disse Numero Tre.

«Se tu non risparmiassi sull’oro e sulla seta…», aggiunse Numero Due sottovoce, quasi scusandosi per la precisazione.

«La canapa è più abbondante e costa di meno», sentenziò Numero Uno. «E comunque non è di questo che volevo parlare: intendevo ricordarvi che, nonostante le circostanze avverse, egli è cresciuto intelligente e robusto, pieno di voglia di vivere».

«È vero», riconobbe Numero Due.

«Avete uno strano concetto di robustezza», ridacchiò Numero Tre; ma dovette interrompersi, perché un accesso di tosse stizzosa la scosse tutta. Quando si fu ristabilita, si asciugò con una manica la saliva che le colava dalla bocca. «Aveva sempre fame», continuò. «Il suo gatto macilento e azzoppato era più in forma di lui. E questo l’hai voluto tu, Numero Due».

«È vero», annuì quella.

«È vero, è vero, è vero», le fece il verso Numero Uno, dandole un pugno sulla testa calva.

«E inoltre», proseguì Numero Tre ignorando i grugniti delle sorelle, «è cresciuto, sì, ma come un piccolo delinquente. Quanti negozianti ha alleggerito, fingendo di entrare negli esercizi per chiedere la carità?».

«Aveva fame!».

«Come se questo giustificasse tutto! Ha rubato per necessità, d’accordo, ma perché fare comunella con gli spacciatori, qualche anno dopo? I soldi che guadagnava non li impiegava certo per nutrire se stesso o la propria famiglia».

 «I suoi genitori non meritavano nulla: ottenebrati com’erano dall’alcol, non ricordavano nemmeno di avere un figlio. Quale strada poteva aprirsi di fronte a un ragazzino ignorante e bisognoso, che non aveva frequentato neanche la scuola dell’obbligo e non aveva mai visto un soldo in vita sua?».

«È vero», ripeté Numero Due.

Numero Tre non si lasciò scoraggiare. «Non aveva molte possibilità, d’accordo. Però a venticinque anni ha avuto la fortuna di incontrare quell’attricetta bionda, così elegante e graziosa, che si è innamorata pazzamente di lui. Gli sarebbe bastato accettare il suo aiuto: avrebbe potuto ripulirsi e condurre un’esistenza decente».

«Sì… E scodinzolare quando lei lo chiamava, mettersi a cuccia quando lei era infastidita, leccarle la faccia quando gli ricordava quanto le doveva. La definisci decente, un’esistenza vissuta come un cane alla catena? Quella donna non era innamorata di lui, ma della generosità e del disinteresse che le piaceva ostentare di fronte ai suoi amici, quando la redarguivano per le sue strane scelte sentimentali».

«La libertà è importante, sì, ma lo è anche l’onestà», osservò Numero Tre. «Se non desiderava impegnarsi con lei, perché non se n’è andato dalla sua villa nudo come vi era entrato? Dopo averla illusa e malmenata, ha ritenuto opportuno portarsi dietro tutti i regali che gli aveva elargito».

«Un regalo è un regalo: non si restituisce. L’ha spintonata, è vero, ma lei gli stava per fracassare in testa il vaso di cristallo del salotto. Difendersi non è un reato, ma un diritto».

I grilli tacevano, finalmente. Era calata la notte. Una notte estiva, chiara, inondata dal profumo dolciastro dei fiori che addobbavano le lapidi. Ma troppo buia per riuscire a leggere i numeri sulle facce del dado. Numero Uno soffiò e una tenue fiammella azzurrina si accese in mezzo al cerchio dei cipressi.

«Quando la guardia del corpo della donna lo ha inseguito, però, poteva salvarsi restituendo ciò che aveva portato via. Perché farsi incriminare per furto? E perché tentare di uccidere quel poveretto che stava solo compiendo il proprio dovere?».

«Non ha cercato di ucciderlo, è stato un incidente. Che cosa doveva fare, quell’infelice ragazzo? Il poveretto, come lo chiami tu, è un energumeno dal passato molto più discutibile del suo: ha già ammazzato, lo sai. Gli puntava contro un’arma da fuoco, c’è stata una colluttazione ed è partito un colpo. Tutto qui».

«Ebbene, sorelle», concluse Numero Due, uscendo dal suo mutismo ed estraendo un piccolo fuso dal paniere. «Chi verrà raggiunto da quel colpo?».

«Pari, l’energumeno. Anzi, nessuno», disse Numero Uno.

«Dispari, il ragazzo», rilanciò Numero Tre.

Numero Due prese a far girare il fuso tra le mani, srotolando uno spesso filo di canapa di cui porse il capo a Numero Uno. Numero Tre lanciò in aria il dado candido, che disegnò una spirale più luminosa della scia di una lucciola prima di ricadere sull’erba, a pochi passi da loro. Tutte e tre si sporsero per vedere il risultato.

«Quattro: è salvo!», esultò Numero Uno. «Il gioco è terminato. Rispetterai il patto?».

«Certo», rispose Numero Tre, e dalla tasca cavò un grosso paio di forbici, con le quali recise fulminea il filo.

Numero Due sbadigliò, riponendo il fuso.

«Vaffanculo», borbottò Numero Uno.

In alto, nel cielo terso, scintillavano le stelle.