Terzo si accertò che la capanna resistesse all’acqua e ai cinghiali, poi caricò i sacchi di carbone sul mulo e tornò in paese. Era quasi mezzogiorno, quando arrivò. Il capitano Mauri l’aspettava per la firma dei documenti. Depositò i sacchi nel magazzino e raggiunse l’ufficiale.
Terzo era carbonaio e lavorava per l’esercito. Per questo l’avevano esentato dal fronte. Eppure, anche se non sparava al nemico, pure lui era un soldato.
«Siete trasferito» gli disse Mauri senza nemmeno guardarlo. E dopo un breve silenzio aggiunse: «In Sardegna».
Hitler credeva che gli alleati sarebbero sbarcati in Sardegna. Mussolini aveva perciò deciso di aumentare le difese dell’isola. Iniziò dalle materie prime e vi mandò chi faceva il carbone. Ma questo il capitano Mauri non lo disse a Terzo. E lui non chiese nulla. Ubbidì e basta.
Sbarcò a Cagliari lo stesso giorno dell’arrivo di Mussolini in Sardegna. Al porto gli dissero che sarebbe dovuto andare Fluminimaggiore: non in paese, però. Insieme ad altri carbonai, tutti toscani come lui, avrebbe lavorato e vissuto nel bosco, in un villaggio costruito apposta.
Un anno dopo Mussolini decise di rimandare quei carbonai a casa: Hitler si era sbagliato. Eppure gli alleati in Sardegna erano arrivati, dal cielo, però, non dal mare. E Terzo lo capì a Cagliari, quando la vide distrutta dalle bombe.
«Di navi non ne partiranno per un po’» gli disse il tenente Melfi.
«Ma io devo ritornare» disse Terzo, mostrandogli l’ordine del capitano Mauri.
Il tenente lo lesse.
«Potete unirvi agli sfollati» gli disse. «Domani parte una corriera per Sassari. Avvertirò il capitano Andolfi; forse vi aiuterà a raggiungere Olbia. Da lì potete imbarcarvi per il continente».
«Sfollati, dite? Ma io…».
«Non vi preoccupate» lo interruppe il tenente porgendogli l’ordine.
«Fatevi trovare qui domani, all’una».
L’avvocato Salis non riusciva proprio a farsene una ragione. Quell’auto, quella Balilla nuova, gli era stata requisita dall’esercito. Aveva un bel dire il capitano Andolfi che gli Alleati sarebbero presto sbarcati in Sardegna, e che tutti i mezzi a motore erano necessari per la difesa dell’isola. Lui l’amore per la patria ce l’aveva; ma qui la patria non c’entrava per niente. Non capiva come la sua Balilla potesse servire a difendere la Sardegna dal nemico. Forse trasportando il capitano Andolfi in giro per Sassari? Sì. Perché in fondo – pensava Salis – era solo per quello che l’esercito gli aveva preso la Balilla.
«Ma avvocato, l’auto vi è stata solo requisita. E alla fine della guerra vi verrà restituita» gli diceva sempre il capitano Andolfi.
Eppure Salis non si persuadeva.
«Quante possibilità ha un soldato di non essere ucciso in guerra?» ribatteva ogni volta.
«Ma che dite, avvocato? Stiamo parlando di un’auto, non di un uomo» sbottava il capitano.
Salis aveva anche pensato di parlare col federale, ma poi ci aveva ripensato. Con i fascisti non voleva mischiarsi di più di quello che le circostanze gli imponevano. Aveva, sì, la tessera del partito, ma era solo perché suo suocero, avvocato anche lui, era un socialista e per questo le camicie nere gli avevano impedito di esercitare. Salis ne aveva sposato la figlia, e aveva dovuto obbligarsi a prendere la tessera del fascio, unico modo per poter gestire lo studio del suocero. Tutti a Sassari – fascisti compresi – lo sapevano, ma, garbatamente, facevano finta di niente. L’avvocato Salis, che era un fascista solo per finta, non poteva certo andare a chiedere favori ai camerati, nemmeno quando si trattava di salvare la sua bella Balilla nera.
Non gli rimaneva, allora, che una sola cosa da fare: seguirla in giro per Sassari. Le volte che era libero lo faceva personalmente. Quando invece doveva lavorare, incaricava il ragazzo di studio di pedinarla per lui.
«Adesso è ferma, all’Emiciclo» disse il praticante.
«E che fa?» chiese Salis.
«Non sono potuto rimanere» disse il ragazzo. «Ci sono soldati dappertutto e il capitano Andolfi non fa entrare nessuno nella piazza».
«Come sarebbe a dire?».
Il praticante alzò le spalle.
«Ascolta» disse Salis. «Il signor Asproni sarà qui tra una mezz’ora. Io esco. Digli di aspettare».
E senza aggiungere altro uscì.
Un cordone di soldati impediva l’ingresso all’Emiciclo Garibaldi. Il capitano Andolfi era vicino alla Balilla e passeggiava avanti e indietro. Un momento guardava in direzione dei giardini e un momento dopo verso Corso Regina Margherita. Nella piazza vi erano tre corriere vuote e nei giardini altri soldati controllavano un gruppo di persone, per lo più donne e bambini.
«Devo subito vedere il capitano!» urlò Salis al soldato che lo tratteneva.
Il capitano Andolfi si voltò, e subito alzò gli occhi al cielo. Sentendo la corriera arrivare in Corso Regina Margherita, attese che si fermasse all’Emiciclo e poi, come aveva fatto con le altre, controllò i passeggeri che scendevano nella piazza.
«Capitano, che sta succedendo?».
Andolfì si voltò di nuovo. Salis ispezionava la Balilla.
«Avvocato, che ci fate qui?».
Rimasero a fissarsi per un istante, poi un uomo si avvicinò ai due.
«Il capitano Andolfi?» chiese lo sconosciuto.
L’ufficiale si voltò e Terzo gli porse subito il suo ordine di rientro.
«Siete quel carbonaio di cui mi ha parlato Melfi, non è così?» chiese il capitano appena letto l’ordine.
«Sì, sono io».
Il capitano lo squadrò.
«Temo che dobbiate arrangiarvi da solo. Non credo di potervi aiutare a raggiungere Olbia» disse riconsegnandogli l’ordine.
«Dovete andare a Olbia?» si intromise Salis. Il capitano alzò di nuovo gli occhi al cielo.
«Sì. Un tenente, a Cagliari, mi ha detto che da qui avrei potuto raggiungere Olbia, e poi imbarcarmi per Livorno».
«Ho sentito che siete un carbonaio» disse Salis.
«Sì. Faccio il carbone per l’esercito. Un anno fa sono stato trasferito a Fluminimaggiore».
«Dunque, anche voi siete un soldato, non è così?» domandò l’avvocato. Andolfi scosse il capo. «E voi, capitano, abbandonate un soldato?».
«Che cosa volete, avvocato, che lo accompagni a Olbia?» chiese Andolfi sprezzante.
«Perché no? Invece di starvene a Sassari con la mia auto…».
«Adesso basta!» lo interruppe il capitano. «Ho già perso anche troppo tempo. Voi – disse rivolto a Terzo – fatemi la cortesia di raggiungere gli altri ai giardini e aspettatemi lì. E voi, avvocato, andatevene. Vi ho già detto che non potete stare qua».
Terzo ubbidì, mischiandosi agli sfollati.
«Buona sera, capitano» disse Salis, avviandosi al suo studio.
Andolfi lo ignorò.
Salis pensava a quel carbonaio. Ne aveva parlato a casa, con la moglie, tacendole però quello a cui ora, nel rifugio antiaereo dove era corso al suono della sirena, stava pensando. Quella guerra aveva requisito una cosa a entrambi. Al carbonaio il suo mestiere, a lui la sua auto. Il carbonaio voleva tornare a casa; lui voleva riavere la sua Balilla. E in tutto questo sentiva che c’era qualcosa di nobile; la nobiltà di chi deve chinare il capo, consapevole dei destini infiniti di una guerra.
L’allarme aereo cessò. Fuori, in Piazza Plebiscito, tutti quanti guardarono il cielo e subito capirono che quello non era stato un allarme come gli altri. Un fumo nero saliva lento da dietro le case del centro storico. Sembrava lontano, in mare, ma fu soltanto una sensazione, una breve illusione. Un senso di disperazione subito li prese, e spinse Salis e gli altri in direzione di quel fumo. Raggiunta Piazza Sant’Antonio, tutti si portarono le mani alla bocca, e non solo perché l’odore di fumo misto a terra si era fatto insopportabile. Sassari era stata bombardata; la stazione era stata colpita. Una delle due scalinate che sfociavano nel piazzale era distrutta. L’edificio aveva il lato destro della sua facciata annerito e sfigurato da profondi segni di schegge. Nel piazzale, tra le macerie, qualcosa bruciava. Tra la confusione dei soldati che entravano e uscivano dalla stazione, Salis vide il capitano Andolfi. Era sporco di terra e indicava a due portantini un punto del piazzale. Salis corse verso di lui, ma inciampò in qualcosa. Guardò per terra. Era la targa di un’auto. La raccolse e lesse i numeri.
«La Balilla» sussurrò senza forze.
Quando rialzò lo sguardo, il capitano gli era davanti. I suoi occhi erano arrossati e lacrimavano. Guardò la targa che Salis teneva ancora in mano e poi lo fissò. La sirena di un’ambulanza prese a suonare nell’aria.
«Il vostro soldato» disse il capitano «È morto. L’ha ucciso la bomba». Salis lo fissava, in silenzio. D’improvviso Andolfi gli strappò la targa dalle mani e la gettò via.
«Avete capito quello che ho detto?» urlò.
«Il carbonaio toscano. È morto?» rispose Salis con un filo di voce.
«Doveva partire per Olbia. Oggi, col treno» continuò il capitano. «Ma la città è stata bombardata e non si può raggiungere, chissà per quanto. Allora, lui mi ha fatto chiamare. Voleva tornare a casa, gli interessava solo quello».
«Capitano!» urlò un portantino dal piazzale. Andolfi si voltò.
«Portatelo via!» gridò.
«E voi? Che gli avete detto?» chiese Salis.
«Gli ho ordinato di non muoversi da Sassari» disse Andolfi voltandosi. «Ma è stato inutile. Non era più un soldato. Era stufo di ubbidire in silenzio. Sono riuscito a trattenerlo per un po’, ma quando è suonato l’allarme è scappato».
«Era lui quello che hanno portato via?».
«Sì. La bomba ha colpito la vostra auto. Il carbonaio vedendola parcheggiata nel piazzale della stazione deve aver pensato che con quella avrebbe potuto raggiungere Olbia».
«Come fate a dirlo?».
«Non posso, è vero. Ma sono convinto lo stesso che sia andata così. Gli aerei volavano a bassa quota. Uno di loro deve aver visto l’auto muoversi e ha sganciato la bomba. Il vostro soldato voleva solo tornare a casa. E invece è diventato un eroe».
«Che dite?».
«Se non fosse stato per lui, quella bomba sarebbe stata sganciata chissà dove in città e gli altri aerei avrebbero fatto lo stesso. Il carbonaio e la vostra auto hanno salvato la città».
La folla che si era radunata iniziò a gioire: Sassari era salva. Salis guardò il fumo e tornò ai suoi pensieri nel rifugio. Si era sbagliato: non c’era niente di nobile in tutto quello.