Cinzia Petri – Detonazione

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Testa, spalle, torace. Subito dopo, gambe. Sono in trappola, ingoiata da un mostro come Giona nel ventre della balena. Sono dentro una prigione scura, non ne uscirò più. Provo a urlare: Dove siete?, ma le mie parole si perdono nell’oscurità. Nelle mie orecchie esplode un assordante boato, ho l’istinto di lottare, scalciare, combattere, muovermi e correre via, il più lontano possibile. Eppure gli arti non obbediscono al cervello, ai segnali neuromuscolari. Si ignorano, si respingono. Il corpo non fa più niente, è fermo, un giocattolo con la molla scarica.
Devo assolutamente parlare, ma le parole mi rotolano in testa allo stesso modo dei ciottoli: le ripeto tre me e me. Poi si manifesta un silenzio spaventoso, uno strano silenzio ronzante che mi terrorizza, nella sua immobilità schiacciante e improvvisa. Grido, ovviamente, chi non lo farebbe? Il grido, però, non risulta udibile, il rumore è troppo forte.
Non ho mai provato un dolore simile: pieno e perfetto come un guscio d’uovo. È invasivo e colonizzatore, cerca di conquistarmi, di sostituirsi a me col metodo con cui agiscono gli spiriti malvagi.
Cerco di allungare la mano per afferrare il buio che mi circonda, ma le dita si rifiutano di articolare qualsiasi movimento. Nel mio campo visivo entrano con irritante chiarezza fluttuanti volti deformi, hanno le sembianze di ghirigori arancioni che galleggiano.
Qualcosa mi esplode all’improvviso nella testa e mi strazia; il tormento è così intenso e puro che mi sembra di sentire un accordo acuto dietro gli occhi. La sofferenza dilata la testa, che è un palloncino pieno d’acqua. Il dolore è colorato: bianco, rosso, striato di giallo.
Scorrono lentamente minuti, forse ore. Il mio respiro convulso mi risuona dentro al petto e nelle orecchie; il tempo scivola via intermittente, come se le lancette dell’orologio venissero continuamente interrotte e fatte ripartire, interrotte e fatte ripartire.
Quando riemergo da un sonno frammentario, sento che qualcuno mi tiene la mano.
«Mamma!» grido.
Una voce dice: «Va portata in ospedale».
Qualcuno mi solleva malamente, schegge di male mi tartassano come se fossi il bersaglio di frecce di metallo acuminate. Provo terrore, riesco a sentirne il sapore. La febbre mi sale alle tempie e le fa pulsare con una costanza che mi toglie lucidità. Capisco che il mio corpo viene trasportato di fretta su una barella, che viene poi infilata in un cunicolo. Quando parte sterzando bruscamente in velocità, mi rendo conto di essere su un mezzo di soccorso. In quel momento ricordo quando mamma ci portò per la prima volta nel parco giochi vicino a casa, con scivoli a spirale e vasche piene di soffici palline colorate. Mio fratello scomparve in un tunnel blu di plastica lucida. Quando mi affacciai all’imboccatura del cunicolo, vidi i suoi calzini che sparivano. «Torna indietro», dissi. Per tutta risposta, lui scoppiò a ridere. Mi girai verso la mamma e la mia sorellina. Mamma mi fece un cenno d’incoraggiamento. «Avanti, raggiungilo». Mi rannicchiai all’ingresso: ho sempre avuto paura degli spazi angusti. Quando mi accovacciai per capire quanto tempo avrei impiegato ad avvicinarlo, il viso di mio fratello emerse incorniciato dall’uscita del tubo come una creatura vista dal capo sbagliato del telescopio. Mi chiamò: «Vieni, vieni».
L’ambulanza frena, siamo fermi. Mi traghettano a terra.
«Riesci a vedermi?».
Provo a stringere gli occhi ma sono consapevole soltanto del movimento in velocità e di fili e nuclei che mi esplodono davanti agli occhi, sgretolandosi e ricomponendosi all’infinito. Per mettere a fuoco le cose devo sviluppare metodi interpretativi alternativi, e tutto quello che riesco a fare è trasformarmi in testimone: ascolto.
«Devi restare immobile, capito?». La voce me lo urla con angoscia.
Tento di muovere un pezzo del mio tronco ma tutto quello che ottengo è una detonazione. Un rombo mi squarcia dalla testa ai piedi e ho l’impressione di andare in pezzi. «Per favore,» singhiozzo, «per favore».
La pressione sulla testa e sul petto è insopportabile. Subodoro l’angoscia della persona che mi sta trasportando di furia attraverso quella che ora capisco essere una corsia. Ansima, urla: «Fate passare! Fate passare!».
Mi lamento con una voce roca che non riconosco, non è la mia. Il cuore mi batte in modo discontinuo, inciampa, galoppa. Il terrore è un’onda che mi butta contro il muretto del porto, mi viene in mente quando sono caduta dalla barca a remi che avevamo noleggiato per fare una gita tutti insieme, una domenica. Sono scivolata sul fondo bagnato e sono caduta tra i flutti con un plof! Nell’acqua fredda mi sono sentita allo stesso tempo viva e molto vicina all’epilogo, come adesso. Sembra la fine di tutto. Nessuno mi dice che sto per morire, lo capisco da sola.
Ricordo tutt’a un tratto i corpi sfracellati gettati a distanza dalla potenza della bomba. Era mio fratello. Era mia sorella. Quanti anni hanno, quanti anni si devono avere per morire? La mamma? Non lo so, non so più niente, sono in una bara di dolore intollerabile. Avverto i movimenti convulsi degli sconosciuti che si agitano intorno a me, mentre le lacrime mi rotolano giù dai lati del viso e si raccolgono nei capelli.
Qualcuno mi alza dalla barella e mi appoggia su un tavolo gelido e liscio. «No,» grido, «no!».
Una voce femminile urla all’uomo che devono sedarmi. Vedo come in trasparenza una siringa che viene riempita di liquido. Cerco di divincolarmi, ma il dolore mi saetta nelle membra come fuoco liquido.
L’uomo mi picchietta l’interno del braccio per farmi apparire le vene; avverto un pizzico, mi hanno fatto l’iniezione. Andrò in paradiso? Prometto con voce rotta che starò buona, che rimarrò ferma. Andrò in paradiso perché ho sempre preso le medicine, sono sempre stata ubbidiente. Anche quando l’aereo ha oscurato il cielo e mamma ha urlato «Correte!» ho corso a perdifiato senza voltarmi. Ho perso le mani dei miei fratelli, sono scivolate via. Poi, anch’io sono scivolata.
Ora mi sento investire da un calore soffocante, come se mi avessero avvolta in una coperta di lana spessa. La lingua mi ciondola dietro ai denti e la paura sciama negli spazi vuoti della mia coscienza mentre percepisco il mio corpo senza più tensione. Mi sento pesante e ingombrante, forse sono già morta. Ma poi odo la donna chiedere all’uomo: «Una bomba?». L’uomo non risponde, forse fa sì con la testa. La mia coscienza residua scivola via.
«Dove siete tutti?» cerco di articolare, ma ciò che ottengo è solo saliva fuori dalle mie labbra di gomma.
La donna mi accarezza, mi chiama tesoro mentre slitto giù, in fondo, risucchiata da un turbine al quale non posso oppormi. Scariche intermittenti, scene di bambini che giocano, corrono, si spintonano nel parco. L’erba è ingiallita dal caldo che rende l’aria spessa, gli uccelli scendono in picchiata dagli alberi spogli. «Maledetta guerra», sento sussurrare all’infermiera in un sottofondo spugnoso d’immagini e suoni.
Pupazzi di pelouche e libri con illustrazioni colorate. La voce alterata di mamma ci chiama con affanno. Il parco, la consapevolezza di un’ombra dall’alto. La lucidità e il distacco della corsa disperata, urli sovrastati da qualcosa che scoppia e divampa – e tutto all’improvviso è nero. Il sentore crudo e immediato del sangue. Mi scorrono davanti le scene del film in cui abbiamo recitato mentre affogo nell’anestesia che voglio ancora provare a contrastare. Cerco di vedere quella che sono stata un tempo, il fantasma che non esiste più.
Mi chiedo se chi mi sta per operare riesca a vedere la bambina sfocata che corre, si arrampica, si tuffa, va in bici e gioca con la palla. Quella che fa i capricci e che promette di proteggere i suoi fratelli sempre, per sempre. Chissà com’è fatta, una bomba.
«Dammi la mano»: sento la voce di mia madre e mi lascio andare al flusso che mi trascina verso il basso. «Non ti lascio cadere», mi dice.

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