Caterina Storti è nata per il cognome che porta. Ha la sindrome di Down, ed è per questo che ha gli occhi di mandorla: anche il loro colore è uguale. Ogni giorno li sfuma con dell’ombretto rosa e quando la scorgi mentre spinge il carrello della biancheria dell’ospedale sembra che due petali le carezzino lo sguardo. A mezzogiorno, prima di andare in mensa, si riassetta il lucidalabbra perché, dice, una donna deve sempre essere in ordine. Fa bello. Linda, la coordinatrice in lavanderia, la schernisce affermando che è una civetta e Caterina prima ride, poi, la prende sottobraccio e le risponde: come te!
Mario Loda, invece, non sa perché è nato così. Non è per colpa del cognome, e neanche gli occhi a mandorla gli sono stati fedeli; i suoi sono azzurri, come i nontiscordardime. Però ha lunghi ricci castani che gli contornano il viso e Piero, il suo capo in magazzino, lo chiama Rubacuori. Quando va a consegnare le merci nei reparti o negli uffici, tutte le donne lo vezzeggiano e gli fanno piccoli regali, ma lui non sa se è contento; sa solo che diventa tutto rosso e che sente qualcosa che non sa spiegare, come un groppo nella pancia. Allora corre via e torna in magazzino, passando per il parcheggio perché l’aria gli piace e gli porta via il nodo che ha dentro.
Ė lì che è diventato amico di Caterina: la lavanderia è un prefabbricato vicino all’ospedale, a ridosso del parcheggio. Con lei Mario non ha mai il groppo e non diventa rosso; e poi gli piacciono i suoi occhi marroni.
«Ma i tuoi sono più belli», gli aveva detto Caterina un giorno, «guarda, sono come questi nontiscordardime». Caterina ne aveva raccolti cinque dall’aiola e glieli aveva regalati. Lui li aveva messi nel portafoglio anche se gli dispiaceva stropicciarli, ma così non li avrebbe mai persi.
Il giorno dopo Mario era andato in lavanderia, invitando Caterina a bere un caffè al bar. Gli sembrava giusto, dopo il regalo dei fiori. Forse è lì che è cominciato tutto. Piaceva a tutti e due bere il caffè insieme e chiacchierare un po’. Veramente parlava soprattutto Caterina, e Mario ascoltava; lei gli raccontava di come era brava a piegare le lenzuola, sempre dritte e con gli orli tutti a posto. Poi, quando aveva finito il lavoro, andava a fare la spesa per tutta la famiglia e le piaceva dipingere fiori. Gli aveva anche portato i suoi disegni, una volta. Mario, invece, era un vero esperto di musica. Le aveva fatto conoscere il jazz, il blues, la musica classica e tante altre bellissime canzoni! Sapeva tutto degli autori e le raccontava le loro vite come se avesse studiato l’enciclopedia della musica del mondo.
«Oggi è San Valentino», aveva esclamato Caterina quel giorno. «Il mio papà regala sempre alla mamma un mazzo di rose uguale al numero degli anni che si conoscono. Non so come fa, ma quando ci alziamo c’è già il mazzo sul tavolo della colazione. Per me butta giù dal letto il fioraio».
Si erano messi a ridere, e Mario, insieme al caffè, le aveva comperato anche un bacio perugina.
Caterina aveva letto a Mario il biglietto trovato nell’involucro del cioccolatino: Il vero amore è una quiete accesa (G. Ungaretti).
«Cosa vuol dire?» aveva chiesto Mario, dopo averci pensato un po’.
«Non lo so», aveva risposto lei. Ma dopo le si erano illuminati gli occhi e aveva detto: «Forse vuol dire che l’amore è come quando c’è il sole a giugno. Sai quando non fa mica troppo caldo, con il cielo tutto azzurro e il paese che sembra colorato con le tempere!». Poi gli aveva dato un bacio, lungo, sulle labbra.
Mario era rimasto fermo come un salame. Era diventato tutto rosso e poi era corso via, per colpa del nodo nella pancia. Ma questa volta era diverso: non voleva che l’aria se lo portasse via.
Caterina, invece, era tornata in lavanderia saltellando, con un caldo dentro che anche se era febbraio sembrava giugno.
La sera, a casa, la mamma l’aveva presa in disparte e le aveva fatto un lungo discorso. «Hai capito, Caterina, perché non puoi continuare a incontrarti con Mario?», aveva concluso, accarezzandole la testa.
«No», aveva risposto lei, con gli occhi pieni di lacrime.
Anche al lavoro Linda non la lasciava più uscire da sola. La accompagnava dappertutto, anche a consegnare la biancheria nei reparti. Un giorno avevano persino litigato e Caterina le aveva urlato tutto il suo odio. Ma non era servito a niente.
Erano passati diciotto mesi e sei giorni, quando sua madre l’aveva raggiunta al lavoro, un pomeriggio; lei e Linda le avevano raccontato che Mario era morto, per la leucemia. Quel giorno c’era il funerale; potevano andarci, se voleva.
Caterina rispose di sì.
Ora può di nuovo uscire da sola. Finito il turno di lavoro, si riassetta il lucidalabbra e, prima di andare a casa, passa dal cimitero a chiacchierare con Mario.
Quando sono fioriti, gli porta ogni giorno cinque nontiscordardime.
«Vedi», gli dice mentre li cambia nel vasetto ai piedi della lapide «questi non si possono stropicciare».
Poi, prima di andar via, bacia sempre le sue labbra nella foto. E sente un caldo che, per un attimo, giugno sembra durare un anno intero.
FINE
Leggi un breve racconto di Giorgio Olivari