Sai quei romanzi che ti prendono alla gola già dalle prime righe, come una canzone che senti per la prima volta e pensi: “questa me la ricorderò”? Amsterdam Blues è proprio così. Ma non aspettarti un noir classico, né il solito romanzo generazionale. Qui c’è molto di più: c’è il blues dell’anima, quello che suona tra una stanza in affitto e una sala prove, tra sogni giganti e vite che inciampano negli spigoli.
Maicol, bassista ventenne della band “Trenta Denari”, vive tra sogni musicali, l’amore per Leyla e la provincia italiana dei primi anni ’90. Un misterioso volantino su un contest blues ad Amsterdam e il ritrovamento da parte della figlia di un manoscritto della madre suicida intrecciano musica, lutto e desiderio di riscatto. Sullo sfondo, amicizie intense, conflitti familiari e un passato oscuro che torna a bussare. Un blues narrativo tra realtà e sogno.
C’è una voce – anzi, più voci – che ti portano dentro una storia fatta di musica, amicizia, sogni infranti, desideri testardi e incubi che non mollano la presa. Maicol, Leyla, Pablo e Davide sono veri, vivi, fallibili. Hanno dentro la nebbia della provincia, il suono dei Dire Straits nelle orecchie ed Eric Clapton nei sogni. Parlano come parliamo noi, amano come amiamo noi – male, a volte, ma con tutta l’anima.
E poi c’è un mistero, sottilissimo ma affilato, che attraversa tutto il libro come una vibrazione di fondo. Un vecchio manoscritto, una madre scomparsa, un segreto che suona strano come una parola letta allo specchio.
Federico Montuschi ha scritto un romanzo che si legge come si ascolta un disco: traccia dopo traccia, scena dopo scena, con le mani che pizzicano le corde dell’inquietudine e della bellezza. Un libro che ti fa ridere, pensare, suonare, tremare.
E, quando chiudi l’ultima pagina, ti viene voglia di riaprirlo. Come si fa con i vinili che hanno fatto la storia. O come certi sogni interrotti, che vuoi riprendere da dove li avevi lasciati.
Buona lettura. E buon viaggio.