In Italia, se dici che scrivi, inevitabilmente qualcuno ti chiederà: Sì, ma che lavoro fai?
Non che altro fai?, né come lo coniughi con la scrittura, ma proprio che lavoro fai?, con l’implicito sottinteso che scrivere, per definizione, non è lavoro. Al massimo è un passatempo, un esercizio dell’anima, un hobby eccentrico da tollerare con affetto, almeno finché non interferisce con le bollette.
E tu, che magari scrivi ogni giorno, che macini parole come pane, che sudi sulla punteggiatura come un artigiano sul legno, ti ritrovi a dubitare. Sto davvero lavorando?
Perché il paradosso è proprio questo: finché scrivi per conto tuo, per amore, per necessità o per disperazione, non sei percepito come uno che lavora. Se invece scrivi su commissione, se ti pagano per farlo (e si sa che in Italia succede poco e male), allora forse, ma solo forse, stai lavorando. Ma guai a sembrare felice: se ti piace, se ci trovi gusto, non può essere lavoro davvero.
Viviamo immersi in un paradigma culturale che ha qualcosa di moralmente ipocrita e socialmente deprimente: il lavoro, per essere “serio”, deve contenere fatica, alienazione, costrizione. E se non ce l’ha, non ha valore. Dev’essere qualcosa da cui vorresti fuggire, non qualcosa che ti fa alzare la mattina con urgenza e fuoco in petto.
Questo è imbarazzante. È inquietante. Ma, soprattutto, è dequalificante.
Significa che non riconosciamo valore a ciò che è immateriale, che non produce beni tangibili o che non genera profitto immediato. Significa che tutto ciò che è creazione viene sospettato di ozio (e non il nobile otium degli antichi romani), e ogni forma d’arte è buona solo se diventa spettacolo – cioè se serve a intrattenere, distrarre, in una parola vendere.
Un libro non è un libro, è un “prodotto editoriale”. Uno scrittore non è uno scrittore, è “uno che pubblica”.
Un poeta? Ah beh, lui è matto, ma simpatico.
Il disprezzo per le professioni artistiche in Italia è un paradosso storico. Siamo il Paese di Dante, di Michelangelo, di Pirandello, di Pasolini – ma proprio per questo, forse, tutto ciò che è arte è visto come un’eccezione irraggiungibile. L’arte “vera” è morta coi grandi. Quello che si fa oggi è roba da dilettanti, o da furbi.
C’è poi l’eco di un cattolicesimo ancora duro a morire, che ha insegnato per secoli che la sofferenza nobilita e il piacere disonora. Se scrivere ti dà gioia, se ti sembra di fare qualcosa di tuo, non può che essere sospetto.
Infine, pesa una concezione economicista che ha invaso tutto: o qualcosa è utile (cioè produce profitto), o non esiste. E l’arte, si sa, non produce fabbriche né PIL (“con la cultura non si mangia”, diceva Tremonti), salvo quando diventa “industria culturale” e allora, per miracolo, viene nobilitata.
Ma scrivere è lavoro. Scrivere è progettare, costruire, scartare, correggere, rifare. Scrivere è esercitare un mestiere antico e fragile, fatto di studio, di esperienza, di talento e di fallimenti. Scrivere è anche un servizio: dare parole agli altri, ai loro pensieri inconfessati, alle emozioni che non sanno nominare, né tantomeno spiegare o raccontare.
Bisogna dirlo ad alta voce, senza vergogna e senza quella risatina di scusa che spesso accompagna chi dice “scrivo”. Perché finché non saremo noi per primi a riconoscerne il valore, continueranno a chiederci, con un sorriso tra l’ironico e il condiscendente: Sì, ma che lavoro fai davvero?
Occorre una nuova grammatica del valore, capace di riconoscere come “lavoro” anche ciò che non si consuma in una catena di montaggio o in una tabella Excel. Una grammatica che non separi più l’utile dal bello, il produttivo dal simbolico, l’individuo dal suo desiderio.
Perché se è vero che la scrittura, quando è autentica, è spesso mossa dal piacere, dalla necessità espressiva o dalla spinta interiore, è altrettanto vero che ogni pagina scritta con dedizione e competenza è frutto di un investimento totale, spesso a costo di sacrifici che nessuno vede o accredita.
Non è solo questione di farsi riconoscere come “lavoratori” nel senso sociale del termine, ma di rovesciare il paradigma stesso: non tutto ciò che è fatica è lavoro, e non tutto ciò che dà gioia è ozio.
Scrivere è costruire mondi. E chi costruisce mondi lavora. Eccome se lavora. Perché scrivere non è evadere dalla realtà: è fabbricarla con strumenti invisibili – e ogni mondo che abitiamo è stato prima immaginato da qualcuno che, sì, stava lavorando.