La cultura del “carino”: il trionfo del dimenticabile

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Viviamo in un’epoca in cui la cultura del “carino” sembra dominare. Film, serie TV, libri, musica e perfino opere d’arte sono spesso definiti con questo aggettivo, che non è certo sinonimo di capolavoro, ma nemmeno di mediocrità totale. Il “carino” si colloca in una zona di comfort: piacevole, gradevole, ma tutt’altro che memorabile. Questa categoria del “nulla” è diventata un rifugio sicuro sia per i produttori che per i consumatori di cultura. Ma quali sono le implicazioni di questa tendenza? E perché è importante distinguere tra intrattenimento fugace e valore artistico duraturo? 

Il concetto di “carino” è strettamente legato al consumo rapido e superficiale. In un mondo nel quale l’attenzione è frammentata e dominata dall’iperproduzione, ci troviamo sommersi da contenuti progettati per essere facilmente digeribili. Questi prodotti non richiedono impegno intellettuale o emotivo: non provocano riflessione profonda, si limitano a offrirci un’esperienza piacevole e momentanea.
Un esempio emblematico è rappresentato dalle piattaforme di streaming, che promuovono serie “carine”, spesso confezionate con dialoghi brillanti, colpi di scena calibrati e trame che seguono schemi collaudati. Sono prodotti che non mirano a rimanere nella memoria collettiva, ma a soddisfare il desiderio immediato di distrazione.

L’attrazione verso il “carino” è radicata in due fattori principali: la saturazione culturale e il desiderio di evasione. L’iperproduzione di contenuti rende impossibile dedicare il tempo e l’energia necessari a discernere tra opere che meritano o non meritano attenzione. Al contempo la vita moderna, con le sue pressioni e le sue complicazioni, ci spinge a cercare forme d’intrattenimento che ci diano un conforto senza sfidarci troppo. Anche affrontare ciò che provoca pensiero è percepito come stressante: sarebbe un momento impegnativo in una giornata già abbastanza impegnativa.
Come ha rilevato il critico culturale Neil Postman, viviamo in un’epoca in cui ci “divertiamo fino alla morte”: il bisogno incessante di distrazione ha trasformato il consumo culturale in un rito passivo. I prodotti “carini” rispondono a questa domanda, poiché forniscono un’esperienza che è, per definizione, priva di profondità e di significato duraturo.

Non c’è nulla di sbagliato nel cercare intrattenimento. In fondo, il divertimento è una componente essenziale della vita. Tuttavia, pretendere che il “carino” venga elevato a qualcosa di più è non solo irrealistico, ma anche ridicolo. Un romanzo, un film o una serie televisiva che si limiti a intrattenere non dovrebbe essere messo sullo stesso piano di un’opera che sfida le convenzioni, esplora temi universali o resiste alla prova del tempo.
Consideriamo, per esempio, la differenza tra un romanzo come Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen e un qualsiasi bestseller contemporaneo progettato per il consumo rapido. Mentre il primo continua a essere studiato e apprezzato secoli dopo la sua pubblicazione, il secondo è destinato a scomparire dalla memoria collettiva una volta esaurita la sua spinta commerciale. Non è una questione di snobismo, ma di riconoscere che alcune opere sono progettate per avere un impatto duraturo, altre no.

È cruciale che, come consumatori di cultura, impariamo a distinguere tra ciò che è semplicemente piacevole e ciò che ha un valore artistico intrinseco. Questo non significa rinunciare al piacere dell’intrattenimento, ma sviluppare una maggiore consapevolezza critica.
In un mondo nel quale il “carino” regna sovrano, il rischio è di perdere il contatto con le opere che realmente hanno significato e possono aggiungere qualcosa alla nostra vita, ispirandoci e arricchendoci. Come scriveva Italo Calvino, “Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quello che ha da dire”. Forse è tempo di tornare a cercare quei classici, vecchi o nuovi, che possano farci uscire dalla comfort zone e ci invitino a sfidare la comune abulia.

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