Stelvio Di Spigno – Minimo umano

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In un’epoca di restrizioni geografiche e turismo limitato, Minimo Umano di Stelvio di Spigno, pubblicato da poco per i tipi di Marcos y Marcos, se ne infischia dei divieti di spostamento e compie un viaggio ad ampio raggio all’interno dell’esistere, trapassando confini e frontiere, per interrogarsi e interrogarci su che cosa significhi esattamente “essere umani”. È una raccolta che investiga perdite, come fossero domande assolute rivolte a Dio o al passato, alle persone smarrite, siano amicizie o amori, siano fede o momenti lunghissimi – brevi quanto il battito di ciglia, eterni quanto un amore che non muore.

In apertura, trionfa una frase di Niccolò Cusano che fa conciliare il minimo con il massimo, per farci entrare da subito nel cuore della silloge, nei suoi temi cardine: “Il minimo necessariamente coincide con il massimo” (p. 5). È una danza di opposti fatta in punta di piedi, non per paura di essere fuori tempo ma per rispetto del prossimo, per non pestare le dita all’altro che sta ballando con noi. È una pista da ballo che potrebbe anche essere una pista da decollo, una pista da corse in macchina, clandestine, illegali ma aperte anche ai principianti: una pista da cui “non ci si alza, non si vola” (p. 10).

E che cosa rimane se non si può prendere il volo?

Semplice, si può sempre “sognare una vita senza errori” (p. 11), “un miracolo di cose dette sempre per pochi” (ibid.).

Si aprono le danze, allora. Un presentatore abilissimo e preparato dà inizio a una sfilata in cui le modelle sono di tutte le età e indossano abiti fioriti poiché “Le rose sono sempre chi ti ama./Il restante è vecchiaia presa a rate” (p. 22). Gli stili floreali degli abiti di questa parata immaginaria e delle parole che atterrano sulla carta e si sfogliano tra le pagine, sanciscono una certa precarietà delle cose che accadono. Tutto succede per sbocciare, fiorire e poi sfiorire. E dunque, oltre al dolore e al significato dell’esistenza umana, un altro grande tema dell’opera è lo scorrere del tempo: ineluttabile, infermabile, semplicemente inesorabile. Questo durare brevissimo è associato all’immagine di fari deboli, non quelli che guidano una nave al porto, ma quelli che conducono un ciclista a casa, tra pedalate controvento e precipitazioni impreviste. E difatti, ci si perde in attimi “durati troppo poco/come i fari notturni delle biciclette” (p. 35).

Un altro eroe-antieroe/protagonista di questa saga dolcissima e crudele contro lo scorrere del tempo e l’esistere dei rintocchi dell’orologio, sono le parole, il cui dilemma si ramifica in due direzioni contrarie, la loro assenza – cioè il silenzio – e la loro sovrappopolazione – cioè il parlare/scrivere eccessivamente. Questa tensione tra forze opposte si esplica trasparentemente: se da una parte compare “Non rispondo a nessuna domanda” (p. 41); dall’altra esplode la confessione “il silenzio non è ammesso” (p. 46).

La poetica di Di Spigno ci prende per le spalle, non per mano, perché non vuole camminare con noi, vuole principalmente condurci da qualche parte, mostrarci la strada, mostrarci gli sbagli, i segnali per dove “tutto va bene, tutto si riallinea” (p. 45), nella bellissima vacanza verso “questo purgatorio senza finale aperto” (ibid.). Vengono installate ambientazioni semi-celesti o pienamente-celesti, perché tutto è già stabilito in qualche modo, anche se i giudici non si sono espressi sappiamo che ci sarà un verdetto, un punto conclusivo, una meta umana e inevitabile che piomberà su di noi – esseri umani – “come la vendetta di una iena” (p. 47).

Ma non è una raccolta che accetta le sconfitte in maniera depressiva, senza reazioni. No. è una raccolta realista – a tratti cinica ma mai pessimista. Anche le sentenze paiono più realtà che giudizi, come ad esempio: “Non guardare oltre la tua speranza, se puoi” ( p. 49).

In questo viaggio a raggi sconfinati, il poeta ci invita a fare un biglietto di sola andata “verso mondi che non possono morire” (p. 51). C’è speranza in questa poesia, nonostante l’irreparabilità di un’esistenza frastagliata da perdite, ricordi, luoghi, tempi, attimi e parole che se ne vanno e a volte ritornano, a volte rimangono e a volte si perdono. Noi siamo fortunati a poterle toccare con gli occhi sulla pagina, vederle prendere vita, prendere fuoco, imbastire un falò sulla spiaggia, attorno al quale possiamo sederci e ascoltare racconti, storie, poesie. Nonostante l’importanza delle parole e la loro potenza, il poeta ci ammonisce a dovere: “Parlare non è un ponte che si prolunga in cielo” (p. 59); è qualcosa di puramente terreno dunque. Qualcosa che da me arriva a te. Qualcosa che da Di Spigno penetra nei nostri occhi e nei nostri cuori, come spine entrate sottopelle, senza troppo dolore. Impareremo a conviverci, d’altronde “a tutto si sopravvive” (p. 68).

Ed è allora il momento di cacce al tesoro o di partite a nascondino “allenate al faro che non si spegne/nella bella stagione dei millenni”, tra baristi che chiedono il conto, padroni di casa che vogliono che svuoti la stanza entro stasera, cabine telefoniche che accolgono quel che resta di te e “sentinelle dell’aurora” (p. 73) che scannerizzano il tuo biglietto per passare dall’altra parte, dove “il cielo si divide/tra chi dice colpevole o innocente” (p. 81). Lo scontro tra calamite: condanna vs assoluzione. Eppure, in mezzo, si forma il terzo spazio, quello della redenzione, uno stare aggrappati ai moli per non naufragare, poiché si è ancora in gioco “E la sentenza ancora non è data” (p. 81). La giuria è stanca, ha bisogno di un drink. Nella loro sospensione di giudizio e presa di coscienza, questi versi potrebbero ballare armonicamente e trovare rifugio nelle note di Honey and the Moon del cantautore statunitense Joseph Arthur, che suggerisce “Ma adesso, tutto diventa triste./E adesso, il sole sta cercando di uccidere la luna./E adesso, vorrei poterti seguire sulle sponde della libertà,/dove nessuno vive”.

E difatti la conclusione della raccolta arriva così, pacifica ed essenziale: “vorrei credere/in un altrove acceso e favoloso” (p. 85-86), in cui sostare, riposarsi, verso cui dirigersi, una meta da raggiungere, “dentro/la scia notturna di un cielo pacificato,/senza visioni, solo di carità, eterno” (p. 88).

Non rimane che puntare all’eternità su un’altalena che oscilla tra mortalità e ricordi eterni. Il viaggio inizia su un carosello a rallentatore e poi, improvvisamente velocissimo, ci invita a raccogliere le cose che abbiamo, fare le valigie, dare il massimo, dare il minimo, essere umani, almeno una volta.

Almeno una volta.

Impegnamoci.


Due poesie di Stelvio Di Spigno, tratte dalla raccolta:

Somnium
Quasar

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Sara Comuzzo (Udine, 1988) ha pubblicato 5 raccolte di poesie e una di racconti. Sue poesie appaiono su siti, riviste e blog letterari sia in Italia sia all’estero e sono state tradotte in portoghese, spagnolo, russo e inglese. Ha studiato letteratura moderna e studi di genere alla Sussex University con una tesi sul teatro di Sarah Kane. Collabora con "Yawp - Giornale di Filosofie e Letterature" nel reparto “Poesia”, sia come traduttrice sia come redattrice di note critiche. Vive e lavora in Inghilterra.

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