Solaris di Andrej Tarkovskij

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In principio era Panthalassa. Tutto è acqua, e questo enorme oceano è materia e mente. Questo oceano composto da una strana sostanza gelatinosa, torbida e collosa, è Solaris.
Furono forse queste le prime riflessioni che mossero lo scrittore polacco Stanslaw Lem a scrivere nel 1961 Solaris, dal quale il regista russo Andrej Tarkovskij trasse l’omonimo lungometraggio del 1972 (un altro, di produzione americana e con la regia di Steven Soderbergh, verrà tratto dal romanzo nel 2002, ma modificandone e impoverendone la trama).

Il film di Tarkovskij, che vinse il Gran Prix Speciale della Giuria al 25° Festival di Cannes, fu portato in Italia nel 1974, privo dell’abbondante prima sezione, antecedente la partenza del protagonista e con dialoghi snaturati rispetto all’originale. Tali scelte avevano l’obiettivo di “snellire” la pellicola per il pubblico italiano. Al di là di queste spiacevoli vicende, i cinefili italiani possono ad oggi fruire dell’edizione integrale con audio in russo sottotitolato.

In un imprecisato futuro, coerente con la corsa allo spazio perseguita da Stati Uniti e URSS negli anni Sessanta e Settanta, gli scienziati russi scoprono un pianeta al di là del sistema solare: esso appare come un enorme oceano, e viene battezzato Solaris. Nasce così la solaristica, ovvero quel ramo della scienza astronomica e astrofisica che si occupa di studiare il nuovo corpo celeste.
All’avvio della vicenda la solaristica è già una scienza in declino, poiché non è stata in grado di assolvere al proprio compito. Kris Kelvin, il protagonista, è l’uomo a cui l’umanità si affida per decretare la sorte della stazione spaziale in orbita intorno Solaris; egli è inviato in orbita per accertare l’avanzamento delle ricerche e per decidere se queste siano o meno un buco nell’acqua.

Il lungo antefatto che ne precede la partenza – inserito da Tarkosvkij e non presente nel romanzo – ha il compito non solo di presentare le intenzioni di Kelvin (porre fine agli studi della stazione spaziale), ma anche di mostrarci gli eventi che molti anni prima avevano coinvolto altri scienziati e militari sul pianeta misterioso. La registrazione della testimonianza presentata da Berton, amico del padre di Kelvin che aveva partecipato a una missione di salvataggio su Solaris, funge da flashback: l’uomo, interrogato da una commissione, racconta di strani avvenimenti e visioni, di figure e corpi che ha visto emergere dal mare denso e ribollente. Quasi nessuno sembra aver fiducia nel suo rapporto, che viene etichettato come allucinatorio.
Queste le stranianti premesse al viaggio spaziale di Kelvin. Ma Solaris non è un thriller fantascientifico: Tarkovskij sfrutta la trama per elaborare questioni non solo gnoseologiche, ma anche psicologiche ed esistenziali.

«È l’uomo a rendere immorale la scienza» 

La stazione spaziale è, innanzitutto, il luogo in cui gran parte della vicenda si svolge: essa rappresenta il limite (inteso come limes, confine tra il conoscibile e l’inconoscibile) della conoscenza umana, di cui è baluardo inefficace, così sospesa sopra quella materia sconosciuta e misteriosa; essa può essere interpretata anche come il limite dell’umanità stessa, luogo immaginario in cui gli uomini sono costretti a confrontarsi con se stessi, con il loro passato e con ciò che umano sembra non essere.
Centrale, in Solaris, è dunque il tema della conoscenza e, di conseguenza, dello strumento che l’uomo utilizza per conoscere: la scienza, con il metodo che ne consegue. E proprio l’approccio scientifico, con i suoi presupposti materialistici, meccanicistici e razionalistici, è presentato come insufficiente agli scopi della solaristica. Risulta impossibile comprendere con gli strumenti a disposizione il funzionamento di Solaris; le strumentazioni di cui dispongono gli scienziati sono utili soltanto alla distruzione (si pensi al nichilizzatore messo a punto da Sartorius), e la possibilità di una scienza che sia etica e non soltanto un’irrefrenabile sete di conoscenza è questione che emerge sin dal confronto tra Berton ed il protagonista. L’atteggiamento di una scienza meramente assetata di conoscenza, incapace di equilibrare i mezzi con il fine, è esplicitato nel personaggio di Sartorius, che incarna l’atteggiamento eccessivo proprio dell’uomo assetato di Verità, a tal punto da essere disposto a distruggere ciò che non è in grado di comprendere.

Da un lato si pone dunque il metodo di una scienza priva di morale, incarnato appunto da Sartorius, il cui fine (e idolo) è «la verità scientifica, la sola», per giungere alla quale ogni mezzo diviene lecito, anche la distruzione stessa dell’oggetto di studio. L’incomprensibile mostra la limitatezza dell’uomo e delle sue capacità, e l’essere umano, che secondo Sartorius «è stato creato dalla natura per conoscerla» (implicando lo studio approfondito della natura quale missione propria dell’umanità), deve essere disposto ad ogni mezzo per tale missione. È inoltre interessante notare come sia la questione dell’immortalità ad attrarre Sartorius: l’immortalità degli ospiti in grado di rigenerarsi. Impossibilitato per natura a possedere quel potere, incapace di comprenderne la radice, desidera eliminare il problema stesso creando il nichilizzatore. In tal senso la stazione orbitante si presenta anche come un mondo alla rovescia, dove gli uomini non riescono ad abituarsi all’immortalità degli ospiti e non vi aspirano, ma la rifuggono poiché stravolge completamente la loro conoscenza del mondo e di se stessi.
Dall’altro lato vi è, invece, una scienza mossa dalla morale, da uno scopo connotato da umanità in senso emotivo, che tenga conto del dolore che i metodi della ragione, per seguire la verità, procurano. Kelvin non è infatti disposto a sezionare l’immagine della moglie, sebbene consapevole della sua immortalità, poiché non accetta che durante l’operazione possa provare dolore.

Il tema del dolore, inoltre, ritorna in una delle scene principali, come connotazione propria di ciò che è umano. Se Kelvin si lascia trasportare dalle emozioni – come inizialmente aveva sostenuto di non poter fare («non posso lasciarmi condurre dai sentimenti. Non sono un poeta. Ho uno scopo») – e trascura la sua missione di scienziato, Snaut incarna forse la via di mezzo tra i due: desideroso di conoscere, di avere un contatto con Solaris, e disposto a trascorrere la vita intera sulla stazione orbitante, non è tuttavia pronto a soluzioni estreme, facendosi dunque portatore dell’idea che permetterà una sorta di collegamento con il pianeta. Snaut, inoltre, consapevole della deriva meccanicistica, impersonale e formale della scienza contemporanea, non si trattiene dall’esprimere rimpianto per l’abbandono da parte dell’uomo della visione mitologica del cosmo: «abbiamo perso il senso del cosmico. Per gli antichi era più accessibile, lo accettavano come mito e lo vivevano come tale». La citazione che egli fa del mito di Sisifo non è casuale: è forse la scienza, come l’intero agire umano, una costante, faticosa ripetizione senza possibilità di successo?

«Perché andiamo a frugare l’universo quando non sappiamo niente di noi stessi?»

Il tema della conoscenza non viene declinato solamente verso l’esterno, bensì anche verso l’interiorità: il busto di Socrate, presente in molteplici inquadrature delle scene in biblioteca, non può che rimandarci al celebre motto gnoqi sauton, conosci te stesso, che è l’altro motivo centrale della pellicola. Il tema della conoscenza di sé è elaborato principalmente nei due personaggi principali, Kris Kelvin e la moglie Hari. Kelvin deve conoscere se stesso attraverso una riappacificazione con il passato e con sentimenti che aveva escluso in quanto incomprensibili, ma che ora, ripresentandoglisi, gli concedono una seconda opportunità. La domanda che Hari gli pone («ti conosci?») e la sua risposta («come ogni essere umano») risulta ironicamente drammatica alla luce delle conclusioni cui il film stesso ci conduce: l’individuo può davvero conoscersi? Kelvin giunge a un’elaborazione dell’amore che prova verso la moglie, sebbene rispetto a lei il suo atteggiamento appaia più votato a un’egoistica occasione per rimediare agli eventi passati, finiti in tragedia.
Hari, invece, in quanto simulacro è priva di identità: deve conoscersi poiché non si ricorda (nel senso propriamente riflessivo del verbo, ricordarsi). Davanti a una foto che la raffigura non è in grado di riconoscersi, poiché non ha un’identità. L’identità che va cercando non le è disponibile in quanto mancante delle esperienze che comportano la formazione di un individuo. È, emblematicamente, davanti allo specchio che Hari è lentamente in grado di ricollezionare frammenti di un passato che è sì suo, ma non le appartiene. Presa coscienza del suo status di copia, percorre due vie parallele: da un lato si dispera (sa che l’amore tributatole da Kelvin non è rivolto a lei, bensì alla donna di cui è simulacro); dall’altro intraprende un percorso di umanizzazione che la porta a diventare se stessa (come Kelvin le testimonia quando ammette «le somigliavi, ma ora sei tu la vera Hari»). In qualche modo diventa se stessa vivendo e soffrendo. La sua umanità e il suo amore per Kelvin, tuttavia, finiscono per esprimersi in un’eterna ripetizione del tragico: come la donna dal cui ricordo è venuta al mondo, la nuova Hari decide di suicidarsi, consegnandosi all’annichilitore di Sartorius; non più, però, per dolore, bensì questa volta per amore. Non è chiaro se questo implichi una sorta di necessità che guida la vita di ogni individuo (nel caso di Hari la necessità, per tutte le volte che vivrà, di giungere al suicidio), o se questo atto non fosse nel secondo caso dato dalla sola consapevolezza di non essere realmente umana e di non poter tornare sulla Terra con Kelvin.
Il personaggio di Hari, oltre a essere la prova tangibile del potere di Solaris, è anche quello che più si dimostra umano, in grado di comprendere se stesso e gli uomini, e di soffrire. È il tema dell’inumano che si umanizza tramite l’amore ed il dolore, e che si contrappone alla figura di Sartorius, uomo disumanizzato incapace di vedere in Hari alcunché di umano, poiché non terreste, poiché materialmente differente. È tuttavia proprio l’inumano a far da specchio all’uomo: «proprio perché siete umani vi comportate così. Perché siete uomini litigate». Quello specchio citato da Snaut, vero portatore del messaggio tarkovskijano: l’uomo desidera la conoscenza assoluta, ma per ottenerla deve portare tutto a un livello umano, ridurre tutto, il macroscopico – il cosmo – e il microscopico – il Sé – alle proprie possibilità di conoscenza: «Noi non vogliamo affatto conquistare il Cosmo. Noi vogliamo allargare la Terra alle sue dimensioni. Non abbiamo bisogno di altri mondi. Abbiamo bisogno di uno specchio. […] L’uomo ha bisogno solo dell’uomo».

Culmine teoretico del film è senza dubbio l’incontro dei personaggi nella biblioteca. Sotto gli occhi degli elementi che tradizionalmente caratterizzano la conoscenza umana (libri, sculture, strumenti musicali, dipinti e maschere, tutti simboli delle diverse declinazioni e delle diverse forme in cui la conoscenza umana si è espressa) i protagonisti dibattono sulle loro posizioni. Quale sia il ruolo della scienza; che cosa sia più proprio dell’uomo, se la sete incondizionata di conoscenza – presentata da Sartorius – o l’accettazione, seppur piena di dubbi, del mistero dell’inconoscibile che ci muove però all’amore – incarnato da Kelvin. Le domande che sorgono sono molteplici: la conoscenza umana è davvero sconfinata? Esiste l’inconoscibile?
Sono forse le parole di Kelvin nel finale a illuminarci sulla prospettiva che Tarkovskij vuole assumere: «per conservare le semplici verità umane ci vogliono i misteri. Il mistero della felicità, della morte, dell’amore».
È allora l’accettazione dell’inconoscibile in quanto tale, di ciò che c’è ma cui non sappiamo dare una causa e una descrizione analitica, qualcosa che non va eliminato, bensì mantenuto, e che faccia in qualche modo da garante proprio per le verità scientifiche a cui tanto aneliamo.

Un oceano di neutrini

Il vero protagonista nascosto dell’intero lungometraggio resta indubbiamente il pianeta, Solaris. L’incapacità della scienza di comprenderne i segreti non ci impedisce di definire Solaris come una vera e propria res cogitans, una sostanza cosciente in grado di interagire e rispondere con la coscienza umana che cerca di lambirne l’essenza. Solaris reagisce agli stimoli cui è sottoposto dando vita a elementi nascosti nelle coscienze degli abitanti della stazione spaziale. È in grado di concedere la propria materia, i neutrini, e il proprio campo magnetico per la stabilità delle figure che popolano i ricordi e le menti degli uomini. Il viaggio verso la stazione e le vicende che vi prendono luogo ricalcano abilmente il mito, quel mito che da Odisseo a Edipo descrive l’uomo come un insaziabile cercatore di risposte, tanto sul mondo quanto su se stesso. La solaristica incarna questo desiderio di comprendere l’incomprensibile che sta dentro e fuori di sé.

Nel finale, indubbiamente ad effetto, ritorna anche un altro topos del mito: il nostos, il ritorno del protagonista a casa dopo aver viaggiato nel cosmo e in se stesso, con tanto di cane che lo riconosce, similmente a quanto Argo aveva fatto con Ulisse. Ma la possibilità di Kelvin di riabbracciare il padre è in verità preclusa (ancora prima che Kelvin partisse per Solaris si intuisce da un dialogo con il padre che il protagonista non tornerà prima della morte del genitore): è dunque l’ennesima creazione di Solaris che ci viene mostrata. La soluzione trovata dal professor Snaut per entrare in contatto con il pianeta è stata quella di inviargli l’encefalogramma di Kelvin. In tal modo, sembra che l’oceano pensante abbia potuto conoscere approfonditamente la coscienza di Kelvin e dar vita a isole dove i pensieri e i desideri del protagonista prendono forma: possiamo immaginare che Kelvin provi nostalgia della Terra e desideri incontrare di nuovo il padre; è dunque Solaris a soddisfare questo desiderio. Appare un’isola sperduta in questo oceano misterioso in cui la materializzazione del desiderio di Kelvin si fa realtà, dove una piccola dacia prende forma nel cosmo per realizzare un desiderio irrealizzabile.

Ci sarebbe ancora molto altro da dire. Il film di Tarkovskij è indubbiamente una pietra miliare del cinema che non smette di far sorgere interpretazioni, incapaci di rispondere pienamente a tutte le domande che suscita. Ma proprio per questo merita di essere visto e rivisto.


Regia: Andrej Tarkovskij. Soggetto: Stanisław Lem (dal romanzo omonimo Solaris). Sceneggiatura: Andrej Tarkovskij e Friedrich Gorenštejn. Durata: 160’. Genere: dramma fantascientifico filosofico. Paese di produzione: Unione Sovietica. Produttore: Viačeslav Tarasov. Distributore: Euro International Film (in Italia). Fotografia: Vadim Jusov. Montaggio: Lujdmila Fejginova. Colonna sonora: Eduard Artem’ev. Scenografia: Michail Romadin. Costumi: Nelli Fomina. Trucco: Vera Rudina. Interpreti: Donatas Banionis, Natal’ja Bondarčuk, Jüri Järvet, Anatolij Solonicyn, Sos Sarkisjan, Vladislav Dvorzeckij, Mikola Hrin’ko, Ol’ga Barnet, Georgij Tejch, Julian Semënov, Ol’ga Kizilova. Anno: 1972

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Nato a Pavia nel 1995, Federico Fornasino cresce nella città di Vigevano, tra le distese di risaie della campagna lomellina e un centro urbano, una volta importante nucleo dell’industria calzaturiera italiana, ora media provincia sperduta nei sobborghi sempre più ampi di Milano. Frequenta il Liceo Classico e, una volta diplomato, si iscrive alla facoltà di Filosofia presso l’Università Vita-Salute San Raffaele, dove consegue la laurea triennale con una tesi sul filosofo francese Vladimir Jankélévitch. Trasferitosi a Milano, prosegue gli studi filosofici magistrali all’Università degli Studi di Milano. Appassionato lettore e instancabile studioso, si diletta in letture di classici della letteratura occidentale e nell’approfondire autori e tematiche filosofiche di matrice esistenziale.

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