“Shining” di Stanley Kubrick

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L’impronta di Kubrick

Quando Shining arrivò in Europa, lo slogan di presentazione recitava: La marea di terrore che ha travolto l’America è qui. Per la maggior parte del pubblico l’aspettativa era quella di un ennesimo film dell’orrore che probabilmente sarebbe passato presto nel dimenticatoio. Ma quel film aveva una particolarità, un segno distintivo che lo avrebbe trasformato in un cult, entrando nell’immaginario popolare di un cinema non etichettato: la regia di Stanley Kubrick. Noto anche per cambiare genere a ogni produzione, in questo suo lavoro horror il regista non solo ha dato sfogo a tutta la sua raffinata attenzione per i dettagli e alla consolidata maestria nella fotografia, ma ha anche riscritto una delle maggiori opere di Stephen King, il romanzo omonimo da cui è stato tratto il film. Con con il risultato di aver creato sì dissidi con l’autore del libro, scrittore considerato il re del genere, contrariato da questa reinterpretazione; ma consegnandoci un capolavoro cinematografico senza tempo.

Jack Torrance, insegnante caduto in disgrazia per alcolismo e aspirante scrittore, accetta di fare il guardiano di un albergo, sito in alta montagna nel Colorado, per il periodo invernale. Questo, oltre che un ritorno economico, gli dà la possibilità di poter scriver il suo romanzo senza distrazioni. Si trasferisce così all’Overlook hotel con la moglie Wendy e il piccolo Danny, il quale possiede una capacità extrasensoriale, chiamata “la luccicanza”, svelatagli dal cuoco dell’albergo che la possiede a sua volta, e dialoga con un ipotetico amico invisibile: Tony. Jack viene a conoscenza del fatto che il posto è stato teatro, anni prima, di una tragedia in cui si è consumato un massacro, compiuto dal guardiano di allora, che aveva ucciso la moglie e le due figlie gemelle per poi togliersi la vita a sua volta. Il Male permea il luogo, e il bambino si rende subito conto della sua natura malvagia, avvisato anche da Tony, mentre il padre ne resterà suo malgrado vittima e comincerà ad avere visioni che lo porteranno a scagliarsi contro la propria famiglia, esattamente come era successo in passato.

Lontano dagli standard classici dei film dell’orrore, Il film si sviluppa soprattutto sui dualismi di padre e figlio: Jack alle prese con i fantasmi che gli fanno visita e lo incitano all’omicidio, e Danny con l’amico invisibile che è la sua personificazione del potere di preveggenza e telepatia. Questo tema, tanto caro a Kubrick, diventa la base per la progressione della trama, in cui Jack è sempre più preda del Male, fino a perdere coscienza di se stesso e seguire totalmente ciò che gli viene imposto dalle presenze maligne, mentre il bambino è sempre più padrone del proprio potere, cosa che alla fine lo porta a sfuggire alla furia omicida del padre e a salvarsi in modo sorprendentemente intelligente. Il tutto con una madre inerme spettatrice di tutti questi cambiamenti, che la metteranno in totale confusione. Non mancano altri richiami a queste ambivalenze, come le due gemelle, che appaiono a Danny sia vive che in un bagno di sangue, i due guardiani, Mister Grady e lo stesso Jack, i due Jack: quello che vive l’incubo e quello che appare nella foto alla fine del film, che dà senso alle parole che Mr. Grady pronuncia nel bagno della Ballroom, in una delle scene più complicate e disorientanti della pellicola.
Il paradosso creato da Kubrick è che la progressiva trasformazione di Jack e i frequenti passaggi che ci mostrano il suo punto di vista ci portano a non identificare totalmente in lui il cattivo, ma a considerarlo solo una vittima del Male che si è impadronito dell’albergo. La meravigliosa interpretazione di Jack Nicholson, forse una delle migliori di tutta la storia del cinema, rende giustizia al personaggio, facendoci provare compassione e sperando in un finale in cui il Male che lo attanaglia venga sconfitto, più che tifare per la salvezza del bambino, vero supereroe della situazione e quindi non bisognoso d’aiuto. Memorabili sono le scene al bar tra Jack e il barista Lloyd e quelle nel salone principale quando Wendy scopre ciò che sta scrivendo il marito: momenti di pura arte recitativa.

Come spesso accade con Kubrick, Shining è stato girato con l’apporto di innovazioni tecnologiche significative, sopra tutte l’uso della Steadycam (già comunque utilizzata in altri film), ulteriormente modificata dal suo inventore, Garrett Brown, che durante le riprese l’ha e migliorata a causa all’ossessiva ricerca della perfezione tipica del regista. Le scene in movimento, soprattutto quelle con il piccolo Danny che percorre i corridoi con il triciclo, sono state rese indimenticabili proprio grazie all’uso di quello strumento.
La riscrittura di Kubrick del testo letterario ha avuto all’inizio molte critiche, oltre che dallo stesso King, da importanti testate, sottolineando l’atipicità di questo film nel contesto horror; ma proprio la lentezza, la precisione, la reinterpretazione attuata anche attraverso gli attori, l’eccezionale qualità della fotografia e delle riprese hanno reso Shining un capolavoro cinematografico senza etichette, comunque considerato il miglior horror della storia dopo L’esorcista. Nel suo saggio On writing – pubblicato nel 2000, a vent’anni di distanza dall’uscita del film – Stephen King rivedrà la sua opinione giudicando Shining come uno dei film che hanno dato un contributo peculiare al genere.
Riguardo alla contesa regista-scrittore, i dualismi e le ambivalenze create da Kubrick oltrepassano i confini della pellicola, portando al dualismo libro-film e addirittura a quello delle due versioni distribuite: quella per USA e Canada, di 144 minuti, e quella per il resto del mondo, di 119. La versione lunga, con 25 minuti in più, rende Shining un lungometraggio più tipicamente horror, con dettagli svelati in anticipo che danno allo spettatore più chiarezza e più consapevolezza di ciò che accadrà in seguito, mentre la versione vista in Europa, rimontata personalmente dal regista, è più oscura, disorientante, basata su cambiamenti repentini delle scene, con più suspense e meno indiziaria per gli spettatori. Non è ancora chiaro quale sia stata decisa dalla produzione e quale dal regista, ma personalmente, conoscendo Kubrick, tendo ad attribuirgli la più corta che, senza ombra di dubbio, è quella che più stacca l’opera dal genere per consegnarla alla giusta dimensione di film d’autore. In realtà la versione integrale (introvabile) era di 146 minuti, ma pochi giorni dopo la sua pubblicazione, per imposizione della produzione, fu rimontata da Kubrick, che tolse 2 minuti. Pare tuttavia che in quei due minuti ci fossero scene che rendevano il finale piuttosto banale.

Come detto, Shining è entrato nell’immaginario collettivo ed è stato oggetto di innumerevoli interpretazioni, che hanno prodotto anche documentari dedicati alla ricerca e alla possibile spiegazione di tanti indizi e messaggi subliminali che il regista avrebbe introdotto nel film, come l’ipotetico abuso sessuale del padre sul figlio, le teorie Junghiane, i personaggi nascosti in alcune scene (la figura dietro il sangue che esce dall’ascensore), fino ad attribuire a Kubrick la regia di un falso allunaggio dell’Apollo 11 nel 1969 (maglietta di Danny quando riceve la pallina da tennis). Ovviamente sono ipotesi molto forzate e alcune rasentano l’assurdo, ma sottolineano quanto questo film, e soprattutto il suo regista, siano stati e siano tutt’ora significativi per il cinema. Di certo la pignoleria e l’estrema cura dei dettagli di Stanley Kubrick sono tutt’altro che leggende ed alcune particolarità, a ricordare le sue ossessioni, sono documentate e confermate dagli attori stessi; come la scena delle scale, con Wendy che le sale camminando all’indietro, girata la bellezza di 127 volte, o la porta sfondata a colpi d’ascia da Jack: ben 60 porte sono state distrutte e sostituite prima dell’ultimo ciak. Aneddoti e curiosità si sono sprecate, e non basta qualche riga per elencarli tutti, ma val la pena di citarne una che forse ha involontariamente accomunato ciò che libro e film sono riusciti a comunicare a lettori e spettatori: le scene in esterno dell’Overlook sono state girate in Oregon, sul monte Hood, presso l’albergo Timberline Lodge. I proprietari avevano chiesto al regista di cambiare il numero della stanza, la 217 del libro, per timore che poi i clienti, impressionati dal romanzo, non volessero più prenotarla. Contrariamente a quanto pensavano, invece, dopo l’uscita del film gli albergatori furono subissati di richieste proprio per la camera 237 che, purtroppo per loro, in quell’albergo non esisteva.

In definitiva, Shining è un capolavoro senza tempo, un film che non ci si stanca mai di riguardare perché ogni suo aspetto è geniale, e spesso lo si rivede anche solo per confrontare separatamente le differenti visioni che dà: trama, fotografia, riprese, o semplicemente per godere della magnifica interpretazione di Jack Nicholson.

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Fiorenzo Dioni nasce a Brescia nel 1963. Progettista di professione, scrittore per passione, scrive da sempre, ma ha cominciato a pubblicare solo pochi anni fa. Ama scrivere racconti ispirati a situazioni quotidiane, dandogli poi una veste surreale e di fantasia. Ha pubblicato tre libri: “Porte”, composto da tre racconti lunghi, “Riflessi”, un progetto in collaborazione con una fotografa in cui si sono incontrate e confrontate immagini e parole, “L’uomo in scatola”, pubblicato da Calibano Editore, composto da 19 racconti surreali. Da uno di questi è stato tratto il fumetto “Mio padre, il tango” (Calibano, 2023). Ha partecipato a varie antologie di racconti a tema, tra cui “Anch’io. Storie di donne al limite”, “Ci sedemmo dalla parte del torto”, “Nulla per cui uccidere” (Prospero Editore), e “I racconti della Leonessa” (Calibano Editore). Altri suoi racconti sono stati pubblicati sulla rivista Inkroci, con cui collabora anche per recensioni di libri e dischi nelle rubriche “Attenti al libro!” e “Formidabili, quei dischi!”. In passato ha scritto recensioni per le riviste NB e Dentro Brescia.

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