Tatà racconta la storia di una donna segnata da traumi familiari e da un amore perduto, che cerca di ricostruire la propria vita ritrovando un vecchio quaderno pieno di ricordi. Tra flashback nostalgici e incontri con personaggi stereotipati, il passato e il presente si intrecciano in un percorso di perdono e riscoperta di sé. Il tutto si conclude con un prevedibilissimo lieto fine, intriso non di sentimento come sarebbe lecito aspettarsi, ma del più bieco e retrivo sentimentalismo.
Valerie Perrin, già nota per i suoi romanzi dal taglio fortemente artificioso, con Tatà si conferma maestra di una narrativa che molti definirebbero “comfort food letterario”, ma che in realtà non tradisce altro che un progressivo deterioramento del gusto dei lettori. La storia, che si muove su binari triti e ritriti, gioca con cliché emotivi senza mai riuscire a conferire profondità autentica ai personaggi o alle loro vicende.
La protagonista, il cui nome sembra quasi una parodia di un certo tipo di eroina fragile e sognatrice, vive una vita spezzata che il lettore dovrebbe avvertire come propria. Tuttavia, ogni svolta narrativa è telefonata, ogni sentimento appare artificioso, e ogni dialogo suona come un’eco di altri romanzi dello stesso stampo, privi di qualsiasi originalità e forse per questo tanto ricercati da lettori ed editori.
Il romanzo si avvale di una prosa che alterna toni mielosi a una drammatizzazione forzata, sfociando in un cocktail indigesto di banalità pseudo-poetiche. La Perrin sembra confondere la profondità con l’elenco ossessivo di dettagli quotidiani: un giardino fiorito, un vecchio quaderno ritrovato, una tazza di tè che diventa simbolo di una perdita che nessuno, tranne i personaggi di questo romanzetto, può “sentire” davvero.
Ciò che rende Tatà particolarmente insopportabile è la sua pretesa di parlare al cuore dei lettori, quasi a voler manipolare emozioni basilari senza alcun rispetto per la loro complessità. Si tratta di un esercizio narrativo che sottovaluta l’intelligenza di chi legge, che l’autrice cerca di commuovere con formule prefabbricate, come se chi legge dovesse reagire a comando, invece di rischiare la sincerità o il coraggio creativo.
Ennesima dimostrazione di come il mercato editoriale sia ormai invaso da opere evanescenti, il cui unico obiettivo sembra essere quello di alimentare un’illusione di empatia a buon mercato. In librerie ormai sature di titoli consimili, Tatà non rappresenta un’eccezione, ma un sintomo del declino della narrativa contemporanea, che sacrifica ambizione e qualità sull’altare delle vendite facili, sfornando “letteratura” da rotocalco.
In definitiva, Tatà non solo soffre di gravi difetti strutturali e stilistici, ma è anche corresponsabile della banalizzazione del gusto letterario. La lettura di questo libro non è solo un’esperienza deludente: è un promemoria di quanto sia importante resistere alla tentazione di farsi cullare da una narrativa che, nel tentativo di consolare, finisce per insultare la nostra intelligenza.