Breece D’J Pancake – Trilobiti

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Sono stati scomodati addirittura Hemingway e Faulkner in riferimento a questo libro che raccoglie i dodici racconti di Breece D’J Pancake, morto suicida prima di poterne scrivere altri. E si sono spesi a parlarne con toni enfatici autorità quali Joyce Carol Oates, Tom Waits, Kurt Vonnegut e Giuseppe Culicchia.
A questo punto parlarne bene sembrerebbe quasi un diktat: ci si conforma al giudizio degli intellettuali paludati e prezzolati per timore di sfigurare. Del resto, viviamo in un’epoca in cui la sincerità è considerata un imperdonabile difetto, anzi, un abuso, e chi la esercita è guardato male e tagliato fuori.
Quanto premesso non per affermare che il libro sia una schifezza, ma che Pancake non è nulla più che un dilettante promettente, in grado di descrivere con una certa efficacia la realtà desolante dell’estrema provincia agricola americana. Racconta lo squallore di vite mal spese, la vacuità di speranze fittizie o mal riposte, i vittimismi cui induce un’esistenza senza prospettive.
La sua è una narrazione poetica ma essenziale, in cui ben alloggiano vite fantasmatiche e sospese, prive di una precisa direzione, evanescenti come l’irrealtà di cui si nutrono per sopravvivere. E ben s’intende, anche dai finali spesso indeterminati, approssimativi, quanto la lucidità analitica dell’autore gli impedisse di resistere ad un’esistenza di questa fatta, condotta all’interno della stessa nebulosa di disperazione che circonfonde i suoi personaggi, tutti condannati ad inevitabili destini.
Non c’è niente qui che può cambiare nessuno di voi, afferma Ottie, il protagonista di “Che ne sarà del legno secco?”, in assoluto il miglior racconto della raccolta. E, più in là, Non c’è nessuna vita qui.

Ciò non toglie che “Trilobiti” contenga una serie di racconti per lo più mediocri incentrati su situazioni deprimenti, il che non fa di un’antologia monotematica un capolavoro, ma la testimonianza di un autore che aveva già esaurito la propria vena creativa e aveva già detto tutto ciò che aveva da dire.
Tranne che in un paio di occasioni i protagonisti si somigliano tutti, e il corpus dei racconti somiglia ad un romanzo nel quale il destino del protagonista può imboccare, di volta in volta, strade differenti; salvo che, qualunque scelta compia, è sempre e comunque destinata allo sfacelo, perché tutte le strade immaginabili portano allo stesso nichilistico nulla. Anche il linguaggio poetico e rarefatto dell’autore, che dapprima conquista, finisce con l’annoiare.

Salvano l’antologia alcune gemme: “Una stanza per sempre”, “La mia salvezza”, “Come dev’essere” e il già citato “Che ne sarà del legno secco”, che da solo costituisce un piccolo capolavoro. Ma non basta a giustificare i giudizi agiografici che sono stati ipocritamente spesi per questo giovane autore morto troppo presto per dimostrare il proprio autentico valore.

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Heiko H. Caimi, classe 1968, è scrittore, sceneggiatore, poeta e docente di scrittura narrativa. Ha collaborato come autore con gli editori Mondadori, Tranchida, Abrigliasciolta e altri. Ha insegnato presso la libreria Egea dell’Università Bocconi di Milano e diverse altre scuole, biblioteche e associazioni in Italia e in Svizzera. Dal 2013 è direttore editoriale della rivista di letterature Inkroci. È tra i fondatori e gli organizzatori della rassegna letteraria itinerante Libri in Movimento. ha collaborato con il notiziario "InPrimis" tenendo la rubrica "Pagine in un minuto" e con il blog della scrittrice Barbara Garlaschelli "Sdiario". Ha pubblicato il romanzo "I predestinati" (Prospero, 2019) e ha curato le antologie di racconti "Oltre il confine. Storie di migrazione" (Prospero, 2019), "Anch'io. Storie di donne al limite" (Prospero, 2021) e "Ci sedemmo dalla parte del torto" (Prospero, 2022, insieme a Viviana E. Gabrini). Svariati suoi racconti sono presenti in antologie, riviste e nel web.

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