In tempi come questi, in cui un palese e grave dissesto si sta registrando a livello sanitario mentre dal punto di vista sociopolitico va appena un po’ meglio (ma occhio alle becere frange estremiste in Parlamento e nella società civile, sotto le nuove spoglie sovraniste, populiste e negazioniste, che probabilmente sono travestimenti posticci per qualcosa di ahimè già noto e sperimentato!) tornare con una recensione a un classico moderno che ci mostra cosa si agita sotto alle sottili discrepanze di un mondo apparentemente perfetto nelle sue tinte pastello e nei suoi contorni banali aiuta a ristabilire qualche prospettiva. Il classico cui mi riferisco è un romanzo (non tra i più celebrati ma comunque importante) di un gigante della Letteratura del Novecento, Philip K. Dick: Tempo fuor di sesto. Gli appassionati di letteratura fantastica sanno certamente che il genio originario di Chicago soffriva di problemi di salute particolari, disturbi vagamente definibili come neurologici, acuiti purtroppo dal suo uso di quelle amfetamine che gli permettevano di lavorare per lunghe ore producendo così quei 44 romanzi – uno più brillante dell’altro, pur nella varietà di qualità e di spunti – che Dick seppe partorire in soli 56 anni di vita. Altrettanto nota è la sua abile inclinazione nello sfruttare, da scrittore consumato e onnivoro, anche le sue vicende personali per costruire in chiave autobiografica qualche aspetto delle sue straordinarie storie, traboccanti di fantasia ma anche di umanità.
Queste premesse erano necessarie per introdurre un romanzo che forse trae origine proprio da qualche impressione di Dick relativa alla sostanza della cosiddetta “realtà”, che per tutta la vita ha considerato ingannevole e multidimensionale. Peraltro, il titolo stesso dell’opera è una citazione dall’Amleto di William Shakespeare, per la precisione il punto in cui il Principe di Danimarca, dopo aver parlato con lo spettro del padre, e quindi sospeso quasi sulla linea di confine tra il vivo e il morto, dice a se stesso che il tempo è fuori dai cardini e poi si chiede: “Che proprio io sia nato per rimetterlo in sesto?” Deve così esser presente a sé ma anche dissimularsi, per non tradire le proprie intenzioni, ed eccolo quindi indossare la maschera del folle, anche per guadagnare tempo – un tempo ancora davvero fuori sesto.
Dunque a distanza di secoli un altro eccezionale autore, Philip K. Dick, crea un personaggio che rappresenta un suo alter ego, e ce lo mostra nella quotidianità tranquilla di una cittadina di provincia mentre, ospite della sorella e di suo marito, anziché dedicarsi a un impiego regolare si guadagna da vivere indovinando, con sbalorditiva continuità, le risposte esatte a un quiz su un giornale. Questo, in chiave personale, può rimandare al senso di disagio nutrito dallo scrittore per il suo essere “irregolare” per professione, circondato da chi appare più concreto e integrato di lui, anche se sia Ragle Gumm (il protagonista) sia Dick stesso godevano di una certa fama per le loro qualità; ma quel che rende significativo il romanzo è, alla base, la domanda che circola nella mente di Gumm nel momento in cui “qualcosa non torna” (ovvero non risponde al gesto di tracciare col compasso – il sesto – ideale dei cerchi perfetti, non corrisponde neanche per lui che con tanto intuito risolve quel quiz così ostico ai più): questa mia sensazione di trovarmi ingannato, all’oscuro di qualcosa, in un “al di qua” rispetto a una Verità altra e sottaciuta, è frutto di una mia alterazione paranoide prodotta magari dall’insoddisfazione oppure effettivamente ci sono elementi concreti da investigare per poter davvero capire cosa accade?
In un periodo storico – ormai sorprendentemente lungo – in cui il populismo ha sdoganato l’orgoglio della semi-ignoranza, siamo circondati non da scrittori ma da una pletora di scriventi che non solo non hanno mai letto un classico, ma che neanche si son mai posti il problema di leggerlo, prima di provare a produrre alcunché che si proponga di essere Letteratura. Scrivere richiede invece “vita” (forse ci siamo capiti) e talento, che si forma in gran parte attraverso il confronto con chi ha scritto prima di noi: leggere qualcuno dei geni consacrati di cui la Storia è piuttosto parca non è certo un’attività superflua. Senza farla troppo lunga, raccomanderei allora a chi voglia scrivere fantascienza ma con un respiro umano da Letteratura tout court, al di là del genere, di “incontrarsi” con Dick nelle sue pagine. Un suo biografo, Carrère, ha scritto, appunto, che l’americano è il Dostoevskij del Novecento. Anche se non ha una prosa elaborata, è tuttavia pregno di pathos e di empatia (una qualità che gli era molto cara anche nella vita) tanto quanto di trovate e fantasia.
Scritto nel 1958 e pubblicato dopo un anno, Tempo fuor di sesto risulta decisivo nel far affermare Dick come autore di fantascienza capace di esercitare uno sguardo critico sulla sua contemporaneità. L’osservazione delle inquietudini che increspavano non solo la superficie degli apparentemente sereni anni Cinquanta americani (con le comuni domande sui misteriosi oggetti volanti avvistati ogni tanto nello spazio aereo e ipotizzati quali prototipi di velivoli-spia amici o nemici oppure come mezzi provenienti da altri pianeti e la parallela fobia di attacchi missilistici sovietici che potessero malauguratamente trasformare in nucleare la Guerra Fredda) rende questa storia portatrice di significati dannatamente reali, su cui però si innestano le intuizioni fantasiose dell’autore, che trasfigura i temi di partenza in un plot che sarà poi di ispirazione per scrittori nonché registi – evidente il debito che ha verso questo romanzo il celebre film The Truman Show di Peter Weir, da cui a sua volta ha preso il nome una sorta di sindrome psicologica che agli specialisti risulta abbastanza diffusa, e che ha ricevuto questo nome (non scientifico) giusto dieci anni dopo il film, che è del 1998. D’altronde, lo straniamento cui può essere sottoposto l’uomo quando non è in grado di ricollegare parti del proprio mondo all’autenticità del proprio passato, perdendo consapevolezza e senso dell’esistenza – in alcuni casi per motivi reali, legati per esempio a degli inganni o ad un lutto – dev’essere davvero notevole.
Ragle Gumm, uomo sulla quarantina, ex marconista durante la guerra sul fronte del Pacifico, dopo un matrimonio fallito conduce da casalingo la sua vita a casa della sorella sposata, insieme al marito e al loro figlio, guadagnandosi da vivere senza lasciare quel domicilio (palese rispecchiamento della condizione dello stesso Dick e di ogni vero scrittore). Il suo notevole intuito gli permette di essere in testa a tutte le statistiche del quiz “Indovina dove si troverà oggi l’omino verde” (nome non casuale, e ingenuo come tante rappresentazioni d’epoca dell’extraterrestre-tipo) e conduce un flirt con la giovane e seducentemente immatura Junie, moglie del suo vicino di casa e poco simpatico amico William Black (le relazioni umane sono rese con compartecipazione e risultano emozionanti in molti passaggi). Quando le sue ossessioni si faranno più pressanti, al punto di portarlo a coinvolgere i suoi familiari (nonché forzando gli eventi e ritrovandosi in situazioni diverse dalla sua ordinarietà, cosa che consente a Dick di mostrare la sua versatilità nel dare credibile vita narrativa a contesti diversi), scoprirà di essere un precognitivo che, ritrovatosi sotto stress a livelli pericolosi, è stato confinato lì in un microcosmo su misura. Nella realtà “vera” – la fine degli anni Novanta, ovviamente il futuro per Dick ma il passato per noi lettori di oggi – le autorità si servivano delle doti di Gumm per anticipare gli obiettivi dei bombardamenti di nemici – coloni terrestri – che si trovano sulla Luna. Per scongiurare il rischio che Gumm, in crisi psicologica, perda le sue eccezionali facoltà, il governo in parte lo “ricondiziona” mentalmente e appronta per lui Old Town, una fittizia cittadina degli anni Cinquanta in cui, in un’esistenza banale e tranquilla che gli ricorda la sua infanzia serena e il padre, può continuare ad applicare le sue doti senza risentire della terribile responsabilità, quale “strumento” umano nella contraerea, di evitare centinaia di morti; lì potrà credere semplicemente di essere una celebrità come miglior concorrente dell’innocente quiz che appare su un quotidiano, la Gazette.
Anche noi lettori in questo caso non siamo resi onniscienti dal narratore, ma al contrario compiamo insieme al protagonista il processo di scoperta, accompagnandolo prima nella sua insoddisfazione esistenziale per non avere una famiglia propria, poi nei suoi insoliti dubbi, e quindi nelle sue a tratti angosciose considerazioni sulla sua stessa salute mentale. La storia si configura così come una delle epitomi letterarie del caso in cui chi intuisce qualcosa di non evidente non viene creduto finché non riesce ad abbattere il “muro di gomma” assumendosene i rischi. Infatti, in molti casi si può considerare come il discrimine tra sanità e follia incroci quello tra verità e menzogna, tanto da far pensare che da alcuni sia considerata folle l’attitudine di certi altri a smascherare le falsità facendo mind reading, quando invece sarebbe l’ipocrisia a dover essere stigmatizzata.
Esiste dunque, nella storia di Gumm, una macchinazione al di sopra di tutto, che si svela per colpa di dettagli temporali fuori posto, come il ricordo di aver tirato una cordicella per la luce che invece in quella stanza non c’è…
Sbatté la testa contro l’angolo dell’armadietto e imprecò… Poi all’improvviso si rese conto che non c’era nessuna cordicella. C’era un interruttore a parete… Perché ricordavo una cordicella? si chiese. Una cordicella precisa, che pende fino a un punto preciso, in una posizione precisa. Non brancolavo a caso, come farei in un bagno sconosciuto. Cercavo una cordicella che avevo tirato tante volte. Abbastanza da innescare una reazione automatica nel mio sistema nervoso involontario. “A voi non è mai successo?” disse sedendosi al tavolo.
E soprattutto sono fuori sesto gli elenchi telefonici del futuro, ritrovati in una zona disastrata di qualche isolato di ampiezza che forse è in quelle condizioni proprio per effetto di qualche bomba. Perciò, dopo i due tentativi di Gumm di evadere dal suo “recinto”, nella parte finale del romanzo si assiste alla riconfigurazione di tutti gli elementi in gioco, delineando finalmente la verità; che però è una sorta di distopia alla Orwell, in cui i motivi della guerra civile tra (coloni) Lunari e Terrestri non viene spiegata fino in fondo (un po’ come la contrapposizione tra Eurasia, Estasia e Oceania in 1984), anche se in realtà il tema viene sufficientemente sviluppato attraverso il confronto, simile a quello tra due elettori di due partiti agli antipodi, che si sviluppa tra il protagonista e suo cognato (in presenza della signora Keitelbein, un personaggio decisivo nell’indirizzare il primo):
“Come sarebbe a dire, ‘hanno ragione loro’?”, disse Vic. “Secondo te sarebbe giusto bombardare città, ospedali, chiese?”
Ragle Gumm ricordava il giorno in cui aveva sentito dire per la prima volta che i coloni lunari, già allora chiamati lunatici, avevano aperto il fuoco sulle truppe federali. Nessuno si era stupito troppo. I lunatici erano per la maggior parte gente insoddisfatta, giovani coppie non consolidate, giovani ambiziosi con le loro mogli, quasi tutti senza figli, tutti senza ricchezze né responsabilità. La sua prima reazione fu il desiderio di poter combattere, ma l’età glielo impediva. E aveva da offrire qualcosa di molto più prezioso.
Ecco quindi che Dick, attraverso Gumm, si schiera un po’ impulsivamente dalla parte degli irregolari, perché viceversa nel “fuori sesto” del mondo posticcio si coglie il sapore artificiale, falso, della cosiddetta “facciata” benpensante, consistente non solo nel consumismo e nel conformismo, ma identificabile con l’intero blocco della società a cui rimanda quella cittadina degli anni Cinquanta. Se vogliamo portare ancora un po’ avanti il paragone tra il cupo 1984 e questo romanzo, si può considerare un esempio di struttura linguistica falsa e tendenziosa – una “neolingua”, per dirla alla Orwell – quel motto illusoriamente rassicurante che appare su un festone appeso ad un caminetto nella casa di un personaggio secondario, allineato col mondo fittizio di Old Town:
UN SOLO MONDO FELICE RECA GIOIA E FORTUNA ALL’INTERA UMANITÀ.
È uno slogan certamente funzionale a quella speciale versione dell’irrazionalismo sociale totalitario che vuole negare le ragioni dei coloni che vivono sulla Luna. Perché il mondo in realtà è in guerra, è ostile, elabora finzioni che stravolgono i rapporti umani, brulica di spie nascoste anche nei panni del vicino di casa, è ostile, impiega mezzi poco limpidi per garantire la sopravvivenza. E Dick in un altro luogo del testo dimostra di non essere solo un sostenitore dei disallineati, ma di non aver perso di vista la sua empatia; ecco come si esprime Gumm:
“In una guerra civile”, osservò Ragle, “tutte le parti sono sbagliate. Districare la ragione è un’impresa disperata. Tutti sono vittime”.
Sono anni d’oro ma anche di tensione, e il contrasto stravolge chi scorge il marcio, tanto che il precognitivo, in crisi psichica per l’enorme pressione sulle sue spalle, non tarda, anche nel mondo da cartolina, a chiedersi prima se abbia senso la sua vita e poi se non stia perdendo la testa nel presagire che qualcosa non torna. E invece è proprio così: la realtà autentica non è quasi mai rassicurante, a guardarla con occhio oggettivo e nei suoi vari aspetti; mano a mano che Gumm avanza nel suo percorso di autocoscienza e di fuga materiale, il ritmo della narrazione aumenta, avvicinandosi al futuro, per Dick, e alla contemporaneità per noi; infatti le società future, rispetto a quell’epoca, sarebbero state sempre più dominate dai mass media, dalla falsa liberazione insita negli eccessi e nella perdita dell’identità individuale. E questi saranno temi che Dick, affondando negli psichedelici anni Sessanta, affronterà ancora meglio in seguito, esasperando la sua inchiesta sulla sostanza della realtà e sulla natura spesso lacerante della relazione con l’altro sesso – ma questa è un’altra questione.
Se volessimo comunque accennarne qui, legandola ai pettegolezzi e pregiudizi sulla dipendenza di Dick – in particolare dalla sua fervida immaginazione e dalle droghe – e sulle sue condizioni mentali, ecco due estratti da una lettera della sua terza moglie (non l’ultima, quindi; ne ha avute cinque) diretta al giornale New Yorker, dov’era apparso un articolo dai toni scorretti riguardo allo scrittore:
Sono stata sposata con Philip K. Dick per cinque anni tra la fine dei ‘50 e l’inizio dei ’60, un periodo in cui ha scritto alcuni dei suoi migliori romanzi di fantascienza. Ed essi non erano, come un Vostro abituale redattore afferma maliziosamente, “gasati ad amfetamine”. Come potrebbe sapere costui una cosa del genere? Io non ho mai sorpreso Phil osservare ciò che accadeva a casa mia dall’angolo di una stanza. Philip era dedicato alla sua scrittura, amava farlo e gli riusciva con naturalezza. Finché son stata sposata con lui è stato un gentile, amabile e mite uomo, disponibile in casa e meraviglioso con le bambine. Le mie quattro figlie lo ricordano affettuosamente. Era grande nell’ascoltare, sapeva intrattenere con i suoi discorsi, era amabile e amorevole. Un marito-modello – per un lungo periodo. (…)
Aveva la scrittura nelle ossa. Mi scrisse negli ultimi anni che tutto ciò che aveva era la scrittura. Continuare a etichettarlo come “pazzo” e a definire la sua scrittura come guidata dalle amfetamine non è un esercizio critico ma una mera volgarità.
Anne R. Dick
Un’ultima nota va aggiunta sulla bellissima copertina dell’edizione Fanucci, opera dell’ormai celebre illustratore Antonello Silverini: a prima vista incuriosisce la rappresentazione di un autobus trasparente con tanto di passeggeri a bordo, ma non si coglie il nesso col tema del libro, o, se sì, ci vuole un certo impegno immaginativo nel figurarsi magari un Tempo che slitta via semitrasparente come i fotogrammi di una pellicola cinematografica, che offre infatti una percezione di una realtà costruita ad arte. E invece… non è proprio così, ma perché rubare le parole a Philip K. Dick? Vi garantisco che nel romanzo c’è non proprio una scena ma uno spunto che viene appunto rispecchiato da quell’immagine. Leggete e saprete!