Un libro sul tempo, questo di Benedetti. Il tempo che Martin Santomè, il grigio impiegato protagonista della vicenda, conta in attesa della pensione, il tempo che egli passa lasciandosi vivere addosso, il tempo che immagina potrà trascorrere nel momento del “grande ozio” (la fine del lavoro, appunto). Del resto, Santomè è un contabile, uno che trascorre le sue giornate a far quadrare conti, a incastrare tra loro numeri e cifre entro rituali precisi che scandiscono l’intera sua esistenza: l’orario dell’ufficio, le domeniche solitarie, il locale nel quale trascorrere i momenti di attesa. E il diario, sul quale annota lo scorrere delle cose e che forma la struttura del romanzo.
Eppure ha una vita, Santomè, o forse, meglio, l’ha avuta. Un amore forte e passionale con Isabel, la donna che ha sposato e che gli ha dato tre figli ma che, giovanissima, è morta lasciandolo solo a tirare su la famiglia. Santomè ancora adesso prova a riallacciare i fili del proprio essere padre, ma sembra che i suoi tre figli ormai grandi, Esteban, Blanca e Jaime gli sfuggano. Tutto questo finché, nell’ufficio dove lavora, viene assunta Avallaneda, giovane impiegata di 24 anni che, lentamente, riaccenderà in lui una luce capace di illuminare il grigiore del suo futuro. È ancora il tempo, però, ciò con cui Santomè dovrà fare i conti: i suoi 50 anni si scontreranno inevitabilmente con la giovinezza di lei, la storia finita troppo presto con Isabel si porrà come necessario confronto con quella iniziata troppo tardi con Avellaneda.
Malinconia e amarezza sono le linee sulle quali si muove la scrittura di Benedetti, secca, tagliente, capace di aprire squarci profondi sotto la superficie della vicenda principale, da cui fluiscono i rivoli carsici delle molteplici sottotrame che riguardano i figli di Santomè, il vecchio amico Anibal, il rapporto con Dio, le memorie di Isabel, il goliardico compagno Avignal, sfociando in una suggestione letteraria che proprio al tempo non vuole arrendersi, nel momento in cui fissa i ricordi in un diario, sfidando l’inevitabile oblio che circonda ogni cosa. Al punto che, nell’instancabile moto di parole e pensieri di Santomè, la tregua di cui al titolo forse non è che una pausa di felicità all’interno della cupezza di un destino, di tutti i destini. Una pausa effimera, probabilmente, ma che può dare senso a un’intera esistenza, se dal buio è possibile estrarre una storia e scolpirla in opera d’arte di fronte all’eternità.