Lo spettro del caso si aggira per la Pampa
Il cappotto della Macellaia è un giallo sui generis, un noir pervaso da una vena di umorismo amarissimo. Il fatto è presto detto e così descritto nel prologo: All’alba del giovedì 7 ottobre 1943, in un paese sperduto delle pamapas argentine, fu ucciso un uomo. La verità non venne mai a galla: i morti non parlano, gli assassini non si autoaccusano, l’unico testimone non parlò perché era il vero colpevole. Ecco il rebus ridotto ai minimi termini, peraltro espresso in un italiano a tratti “esotico”, aspetto che costituisce una delle caratteristiche del romanzo (da notare l’espressione “del giovedì”).
Da questo momento il fatto si perde lungo la prateria, tanto che quasi ce lo dimentichiamo, mentre i protagonisti prendono il sopravvento con le loro storie inconfessabili, i pensieri, le rivalità, i vizi. Sono personaggi orribili, spesso grotteschi, ma carichi di umanità e degni, ciascuno a suo modo, di pietas, a tratti di simpatia. Sono pettegoli, crudeli, impiccioni, invidiosi, imbroglioni, libidinosi, golosi, nevrastenici, impauriti, calpestati dalla vita e dal prossimo. Homo homini lupus: il paesino di Palo Santo è un vero girone infernale.
Quale mistero si cela dietro atti perversi e inconfessabili? Ogni personaggio ci offre il proprio punto di vista sulla storia. Ma quale storia, poi? Si aspetta un omicidio che tarda ad arrivare; ci si chiede che cosa c’entri il cappotto che la Macellaia (cioè la maestra, moglie del macellaio) commissiona alla sarta per la propria figlia. La ragazza però continua a ingrassare, il cappotto non va mai bene e allora si scopre che, come spesso accade, nulla è come sembra; che i primi ad essere attaccati più alle apparenze che alla verità siamo noi; che le indagini sono talmente inutili da risultare superflue; che ci sono misteri insondabili frutto di un caso assassino; che i fili della storia alla fine li tiene con maestria l’autrice.
Ma questo lo sapevamo già. Tutto il mondo è paese. Anche nella lontana Pampa.