And what exactly is a dream, and what exactly is a joke?[1] cantava Syd Barrett nella strofa finale della sua ultima apparizione con i Pink Floyd, all’interno dell’album A saucerful of Secrets del 1968. Risposta difficile, certo, ma questo lavoro di Middleton, in fondo, potrebbe essere tanto uno scherzo (nella sua idea di immaginare un incontro tra Barrett, di ritorno a Cambridge dopo la sua definitiva estromissione dai Pink Floyd, e Edward Morgan Forster, il grande romanziere che da più di quarant’anni non scrive più nulla) quanto un sogno (nella cadenza incantata della loro lunga conversazione, favorita e sollecitata da un dio Pan giocherellone, incarnazione del soffio creativo).
Un libro che certo si alimenta del rammarico e della malinconia per quella che è stata la parabola di Barrett (e che ogni pinkfloydiano ha bene in mente), ma che può essere fruibile anche da chi non si è mai avvicinato alla sua vicenda artistica e umana, dato l’equilibrio che Middleton raggiunge nel tratteggiare i due personaggi, lo scrittore e il musicista, “il grande vecchio delle lettere inglesi” e il giovane “volto dell’Estate dell’Amore Londinese”, il padre e il figlio (putativi), evitando che la figura di Barrett diventi soverchiante. È anzi Forster il personaggio più attivo, l’uomo che, arrivato al termine del suo percorso di vita (morirà proprio in quel 1968), detta i tempi della conversazione, stimola le risposte dell’altro (è reso benissimo il carattere frantumato di Barrett attraverso le reticenze, i punti di sospensione, le interruzioni dei suoi interventi), divaga sul senso dell’arte, sull’origine della creatività (“il punto in cui mente e cuore coincidono”). E offre, facendo da schermo all’interpretazione di Middleton, il senso più profondo di quest’incontro così inaspettato (l’idea che l’arte preservi dal tempo, che l’artista abbia il privilegio e il compito di sognare al posto degli altri).
Sapere poi come tutto è andato a finire (il lento consumarsi di Barrett nell’autoreclusione, la sua impossibilità di mantenere le promesse che altri gli avevano strappato) rende struggenti e dolorose le pagine, che lasciano il sapore dolceamaro delle possibilità non colte, di ciò che avrebbe potuto essere, di una storia cui vorremmo ogni volta cambiare il finale. Un effetto che Middleton amplifica ambientando l’intera vicenda all’interno dalla stanza occupata da Forster al King’s College di Cambridge nell’autunno del ’68. Un rifugio, una sospensione del tempo e dello spazio, un eterno e immobile ritorno. Una stanza non dissimile da una tana, una di quelle abitate dagli animali antropomorfi di Kenneth Grahame, l’autore del volume Il vento tra i salici, presente nella biblioteca di Forster e che ogni appassionato dei Pink Floyd sa essere il libro per ragazzi che ha ispirato a Barrett il titolo del primo album della band inglese, The piper at the gates of dawn. Un libro all’interno del quale, tra gli altri, si racconta di un padre lontra che cerca il figlio, e del dio Pan che lo aiuta nella ricerca…
Middleton è abile (e appassionato) nell’amalgamare tutti questi elementi (e molti altri ancora, in un gioco di rimandi che fa emergere una capacità di strutturazione narrativa non indifferente), avvolge i propri personaggi in una scrittura lussureggiante che però evita di autocompiacersi, lavora sui chiaroscuri di un rapporto figliale/amoroso, e tratteggia il crepuscolo di due personalità avvicinate dal silenzio creativo che condividono e benedette da una comunione in nome della bellezza e dell’arte.
Come un sogno, appunto. O uno scherzo.