Carne, voce e rotte da seguire, nel tempo vegetale di Gian Luca Favetto
Nell’opera in versi Nel tempo vegetale di Gian Luca Favetto e in particolare nella prima sezione eponima, pare aleggiare lo spirito dell’Aleph borgesiano. Nel memorabile racconto il poeta argentino scrive: «Ogni cosa […] era infinite cose, perché io la vedevo distintamente da tutti i punti dell’universo […] vidi infiniti occhi vicini che si fissavano in me come in uno specchio, vidi tutti gli specchi del pianeta e nessuno mi rifletté […] vidi l’Aleph, da tutti i punti, vidi nell’Aleph la terra e nella terra di nuovo l’Aleph e nell’Aleph la terra, vidi il mio volto e le mie viscere, vidi il tuo volto, e provai vertigine […]».
«Queste pagine/ – sembra fare eco Favetto – sono vasti universi – tutti i confini/ degli universi si affollano in me e fuori di me» (Scrivere, p. 12). E ancora: «Qualunque cosa è in qualsiasi parte dell’universo» (Una voce, p. 19); «Io sono/ l’immagine del mondo e il mondo/ si immagina in me» (L’immagine del pianeta, p. 23).
Versi che dichiarano l’appartenenza al mondo, come di cellula al corpo ([Io] sono la Terra/ in una piccola parte, la mia parte», p. 23; «la moltitudine in noi », p. 30) così che l’aura dell’ἒν τὸ Πᾶν (en to Pan, l’Uno (è) il Tutto oppure Tutto è Uno) avvolge queste poesie e una geografia misterica perfusa di panteismo ne accoglie – per usare due tralicci lessicali fondanti della raccolta – la parola e il cammino (la voce e la rotta).
La corrispondenza tra atto ed attore, il rapporto speculare tra causa ed effetto, tra contenitore e contenuto affiorano più volte: «Non sono il poeta, sono il poema» (Poema, p. 13); «il giardino che mi ha coltivato» (Il giardino, p. 15); «lascio il cammino/ […] non il camminare» (Nel tempo vegetale, p. 35). In queste coordinate, latamente filosofiche, lo stare del poeta è dunque – non ossimoricamente – un percorso, un simbolico cammino, iter ad interiora terrae. L’origine, il mezzo ed anche la meta sono la parola e la scrittura (e gli strumenti di questa: «matita», «inchiostro», «foglio», «pagina»).
La costruzione del reale (p. 29) accoglie con lingua e struttura piuttosto rappresentative dell’intera opera (versi lunghi, chiara sintassi, incisi assertivi, ampiezza metaforica) un testo che sembra issarsi a manifesto:
«Una matita e un foglio, una potente rincorsa di fogli/ Fra le mani che cominciano a marciare a macinare / pensieri […] Di foglio in foglio viaggia la matita […] la pagina è l’opera, dà ombra all’anima. Sull’orlo abita/ costruisce realtà. […] Scrivere è rivelare, togliere il velo/ e metterlo di nuovo, fondare e rifondare, anche fondere/ […] Così/ le vene vivono di sangue, e il sangue si ciba d’inchiostro,/ e l’inchiostro genera atti […] sufficienti a fondare/ la costruzione del reale».
In tale circuito si inscena il paradosso, che tale sarebbe solo non considerando le circolarità e corrispondenze che si sono volute accennare, di una realtà – «amicanemica Natura» – che è al tempo stesso sia creatrice e soggetto che creatura e oggetto della scrittura vegetale. La componente propriamente vegetale della Natura non è poi così sovrastante. Si raggruma solo in una contenuta elencazione («faccio l’appello: robinie roverelle carpini neri/ ortensie begonie …», Altre passioni, p. 34) e si dissemina con controllata presenza (peraltro con cospicua componente antropica) tra germogli, fiori, erba, foglia-fogliame, radici, arbusti, foreste, boschi, albero/i, castagni, ciliegi, betulle, pascoli, campi, orti, vigne, giardini ecc. È, parafrasando, piuttosto un tempo naturale, dove la scala si estende tra «miliardi di galassie» e la semplice «zolla», passando per le matericità di «Terra» e «corpo»- «sangue».
«Scrive Favetto – cito la nota in quarta di copertina – che siamo parte della Natura, dunque meglio occuparsi di lei, altrimenti è lei a occuparsi di noi». La Natura si manifesta, forse finanche si crea o si ricrea, attraverso la poiesis e la pagina («il mondo si impagina in me», p. 22; «gli alberi e tutta la natura hanno fogli in mano scrivono lettere lontano», p. 32) e compito del poeta – avanguardia in tal senso dell’umano – è «dare alla natura/ un verso e al verso la sua natura di manufatto,/ per questo leggo il mondo io» (p. 31). È un compito che il poeta vive non solo nell’astrazione dei filosofi, ma nella concretezza dell’essere egli stesso natura, al punto che uomo e scrittore, natura e poesia coesistono «nelle parole e con le parole» (p. 31) e «il sangue si ciba d’inchiostro» (p. 29).
L’osmosi tra poeta e cosmo si celebra dunque nel corpo, tempio panico e sacrale, raccolto nei propri limiti ma proiettato e compreso nella dimensione cosmica: «gli occhi non distinguono visibile/ e invisibile» (p. 22; «tutto l’infinito è interiore» (p. 28). In questo movimento, insieme di ragione e di intuizione, che richiama, tra i molti, il pensare il mondo come producteure de sainteté, citando Simone Weil, un’azione che viene a farsi simbolo dei due versanti, materico – attraverso il gesto fisico – e spirituale, per l’intenzione gnoseologica, è il cammino: «carne, voce e rotte da seguire» (p 18). Come «il più oscuro dei pellegrini», «abituato al cammino» «di fronte […] e dentro», il poeta, lungo «il sentiero [che] si prende tutto il cammino», si ricongiunge all’origine vegetale: non a caso i versi che seguono chiudono il primo componimento della sezione Nel tempo vegetale, dopo che già il prologo è titolato Cammino, con l’incipit che sentenzia «La casa è il cammino»:
«Faccio orme del mio fiato, faccio voce,
parola, cammino, ma l’origine è nel silenzio
nell’intestino. Passo il confine. Dove mi fermo,
le mie radici proseguo nelle tue.» (p. 11)
Ho voluto dedicare la quasi totalità del mio commento alla prima sezione eponima, non solo perché è la più estesa, contando circa la metà dei testi totali, ma perché mi è parsa la più densa, concettualmente e poeticamente, e la più ricca, come spero sia emerso nelle righe precedenti, sul versante semantico e metaforico. Tuttavia essa aggetta alcune delle sue nervature nella seconda sezione Geografie, in qualche modo conseguenti al cammino e all’essere viandante. Favetto, in particolare nei primi componimenti della sezione, ci attesta che il cammino non è concluso o forse riprende su un altro piano, più fisico e meno simbolico. L’epigrafe («Il forestiero quando arriva/ alla fine del viaggio/ solo lo aspetta il tempo») e i titoli sinonimici delle prime due poesie, Confine e Frontiera sembrerebbero testimoniare la contiguità della narrazione. Nei seguenti versi, di Confine, «Io sono il confine, la pelle e il sangue/ del confine la carne della parola» (p. 41), ricorrono e si intrecciano il corpo-sangue, la parola e il cammino: carne, voce e rotte.
La terza sezione, Un giorno nella vita di A.M. è un poemetto in tredici poesie. La funzione e il peso di questo poemetto, alla luce della attenta architettura della raccolta, non pare potersi dire casuale o di completamento. Ma le domande a proposito resteranno tali. Si viene subito informati che il protagonista si chiama Aleksandr Michailovič, e che i tredici momenti del cammino del suo giorno cominciano dal «cuore della notte». Ci viene detto che «non ha patria» (ribadito: «è straniero. Comunque straniero. Ovunque vada/ straniero. Da qualunque posto provenga./ Straniero fra gli stranieri. Sempre.», p. 61). Lo si vede al risveglio, alla colazione, al pensoso lavoro, fino a un enigmatico Testamento «prima di dormire». Un ciclo. Una unità circolare di tempo. Un viaggio, forse, un cammino elicoidale che torna all’origine, ma che non è più realmente tale.
Una cronaca-storia che suona sia contemporanea che antica, individuale e simbolica, dove nel nulla accadere accade tutto. E che ci lascia non risposte quasi tutte le domande, la qual cosa si deve in fondo ritenere non negativa, letta la gnomica conclusione di Lavoro: «gli inutili sanno dare soltanto risposte» (p. 58).