Davide Uria e Mariateresa Quercia – Panacea. Al di là dell’abisso

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Nella panacea di prati immensi e arcobaleni

Panacea – Al Di Là Dell’Abisso è un’opera poetica e artistica autoprodotta a fine aprile 2020 dal poeta e artista visuale Davide Uria e dall’illustratrice Mariateresa Quercia. Qui, 10 poesie accompagnate da illustrazioni, per un totale di 38 pagine, racchiudono il tempo infinito della quarantena della I° Fase di quello che è ormai diventato un periodo storico, quasi della stessa pregnanza di Paleolitico e Neolitico. Tristemente, questi versi e le loro rispettive illustrazioni possono rimare anche con l’attuale I° Fase della Seconda Ondata che non si sa ancora quanto si protrarrà.

Come Uria spiega nell’introduzione, questo è un “dramma collettivo” – e tra l’altro viene curiosamente da chiedersi se si stabilirà a sua volta nel concetto di inconscio collettivo junghiano – che investe egualmente tutti gli esseri umani, falciati dalla stessa onda. Il libro-diario è una riflessione sulla “condizione di isolamento dal mondo e sul senso di perdita” perché, come il poeta sentenzia, questa è una situazione in cui “tutti stanno perdendo”.
Queste 10 poesie, costituite da versi brevi ed essenziali, ripercorrono i passi di ore che non scorrono mai nell’oceano dei calendari, un momento di nessun contatto imposto, come quei vademecum no contact per dimenticare l’ex, uno di quei suggerimenti semplicissimi di ogni lifecoach o manuale di self-help che si rispetti, volendo sdrammatizzare.

“Come ne usciremo?” ci viene chiesto, “più forti o più fragili?”
“Chi vivrà, vedrà”, sembra essere la risposta del mondo.
“Panacea”, è la risposta dell’arte.

Panacea, chiarificano Uria e Quercia, è una figura mitologica, una dea in possesso di una pozione per curare tutti, l’antidoto, il vaccino. Si spalanca come una spaccatura della dorsale oceanica il punto dell’orizzonte dove il senso di malattia cozza contro la voglia di guarigione. In queste sue caratteristiche, Panacea, detentrice del rimedio universale, sembra quasi l’esatto contrario di Pandora.

Entrando in punta di piedi nell’opera e volendo effettuare un close reading più profondo, ecco che troviamo subito un desiderio:

vorrei volare
ma non posso
non ho ali
e quattro mura
restano sempre
quattro mura

[…] parole
diventano fili
che misurano
la distanza
tra me, te,
e il mondo.

Le mascherine sono descritte come “un bavaglio che filtra le parole” poiché in fondo “il buio è il solo luogo sicuro”. In questo background distopico degno di un lungometraggio hollywoodiano, i corpi sono ridotti a “pedine che neanche si sfiorano”. Rimane il tatuaggio impresso negli occhi, a forza, come i filmati imposti al protagonista di Arancia Meccanica. Ci troviamo ad osservare i muri bianchi nelle case mentre le cose da dire restano incastrate tra i denti e si vorrebbe “mettere il cielo/ in un barattolo/ e con le stelle/ illuminare/ il soffitto”.

Ed è questione di “districare le paure”, sgrovigliarle per bene perché “i nodi tra i capelli ora sembrano quasi un gioco”. Ci viene anche fornita una nuova definizione di finestre che dovrebbe entrare nel dizionario post-quarantena: “minuscole ferite da cui osservare il mondo”. Uno scenario post-apocalittico in cui giorno e notte sono la stessa cosa e ci si ritrova davanti a ipotesi opposte: “letti per alcuni; bare per altri”.

Ma non tutto è perduto. Esiste ancora “speranza”: i sogni sono antidoti mentre ci raggruppiamo composti o in disordine per la nostra collettiva “ora d’aria in fila”. D’altronde, quest’opera è un luogo da cui i due artisti ammettono la fatica di entrare in contatto con l’altro, sia egli lettore ideale o confessore personale, qualcuno a cui avvicinarsi, a cui rivelare il dolore di “scriverti (e disegnarti) con il peso del mondo sulle spalle”.
Ma “se esiste una luce in fondo a questo pozzo nero” è questione di inventare favole per avvicinarsi al movimento delle rondini e spiccare il volo. Tra “gomitoli di silenzio tombale”, le vite diventano orologi fermi, “un cassetto di oggetti e polvere”, mentre in noi brilla forte ed accecante il desiderio di “prati immensi e arcobaleni”.

Il libro si apre con una dedica iniziale: “ai veri guerrieri di questa guerra invisibile, alle vittime e alle loro famiglie”; a tutto il personale sanitario che sta lottando; a tutto il genere umano che sta respirando (chi a fatica) o perdendo; e all’arte e i suoi combattenti. Parallelamente, si conclude con una promessa: “torneremo ad affacciarci alla vita oltre i balconi”.
E così, solo così, la “poesia diventa un tenero fiore che sboccia al di là dell’abisso”.

Avanti, è là che siamo diretti.
Saltiamo tutti insieme. Al di là dell’abisso per raggiungere l’altra sponda, un nuovo periodo storico, forse l’Ultraneolitico: una nuova fase dell’umanità in cui si possa respirare.
Guardate le rondini come volano. Loro sono già arrivate al di là.
È il nostro turno.
Saltiamo.
Facciamolo almeno nella poesia.


Qui una poesia di Davide Uria tratta da Panacea:
Quaranta notti…

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Sara Comuzzo (Udine, 1988) ha pubblicato 5 raccolte di poesie e una di racconti. Sue poesie appaiono su siti, riviste e blog letterari sia in Italia sia all’estero e sono state tradotte in portoghese, spagnolo, russo e inglese. Ha studiato letteratura moderna e studi di genere alla Sussex University con una tesi sul teatro di Sarah Kane. Collabora con "Yawp - Giornale di Filosofie e Letterature" nel reparto “Poesia”, sia come traduttrice sia come redattrice di note critiche. Vive e lavora in Inghilterra.

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