Davide Rubini – Il fischio finale

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In questo suo romanzo Davide Rubini ha coltivato l’ambizione di restituire con realismo i rapporti fra due delle attività umane più celebrate, discusse e, in una certa misura, contigue: la politica e il calcio. La politica, intendiamo, nella sua versione più disinvolta e truffaldina, e il calcio cosiddetto “moderno”, ove la passione per il gioco e il rispetto delle norme hanno ormai ceduto il passo a interessi più obliqui, e forse per questo più concreti e remunerativi.
Per fare ciò egli narra la storia di Brando Adelmi, capitano onesto e irreprensibile di una squadra di provincia (quasi sicuramente di una piccola città della pianura Padana) che, dopo aver guidato i suoi compagni a un’insperata promozione, lascia all’improvviso l’attività agonistica. Spinto dell’ambizione personale e dalle altrui lusinghe, Brando entra nel nuovo (e riconoscibilissimo) partito fondato, dopo il terremoto di Tangentopoli dei primi anni Novanta, da un potente capitano d’industria.
Candidato alle elezioni amministrative, Brando viene trionfalmente eletto grazie al grande serbatoio di voti costituito dai suoi antichi tifosi e, in breve, diventa uno degli assessori di punta della nuova giunta comunale. In questa veste, abilmente manovrato dal sindaco e da altri disinvolti marpioni, sarà la testa di ponte inconsapevole di cui, al momento giusto, i suoi mandanti politici sapranno servirsi per imporre alla cittadinanza, e agli stessi sostenitori della squadra, decisioni inattese e dolorose.
Questo l’impianto generale dell’opera, che prende le mosse da uno spunto non soltanto credibile dal punto di vista narrativo, ma, di fatto, largamente impiegato dalla politica nella odierna Società dello Spettacolo: la tendenza a scegliere come propri candidati alcuni personaggi forniti di sicura notorietà che, pur inesperti nella gestione della cosa pubblica, sono in grado di intercettare i voti degli elettori, cioè di quella stessa sterminata platea che, tramite i mass media, ne segue e ammira i valori sportivi, artistici o puramente estetici.

Il testo di Rubini è pieno di fatti e di personaggi, ma il suo punto forte sta nell’accuratezza con cui svela le contraddizioni di un uomo a suo modo comune, dotato di volontà, di capacità di lavoro e di concentrazione, che si trova catapultato a ricoprire cariche, a trattare affari e a frequentare ambienti senza possedere alcuna di quelle doti, o di quelle astuzie, che caratterizzano il politico di razza.
Stanno proprio qui i momenti migliori dell’opera: negli smarrimenti momentanei di Brando di fronte ai colleghi di partito, nella marea delle perplessità che lo travolge quando assiste a comportamenti non chiari, nel suo desiderio sempre più intenso, ma regolarmente frustrato, di capire per chi e per che cosa stia lavorando, nella sua sensazione, opposta a quella che aveva sui campi di calcio, di non essere più padrone del gioco. In breve, nel totale, rovinoso, straniante capovolgimento della sua nuova esistenza.
Meno riuscita, a nostro avviso, è l’integrazione fra i due mondi di cui parlavamo all’inizio: nel romanzo la politica e il calcio sono descritti minuziosamente, e in qualche passaggio il testo aderisce così strettamente ai due temi da non essere distinguibile da una cronaca sportiva o da un’inchiesta; tuttavia i due mondi rimangono sempre estranei. Il limite dell’opera di Davide Rubini sta proprio qua: in un manierismo che sembra ricondurre tutto all’unico assunto che la politica è fatta soltanto da corrotti, e il mondo del calcio è retto soltanto da ignoranti o, nei casi migliori, da ingenui sognatori.
Questa tesi attutisce in parte i pregi di un romanzo che nella programmatica volontà di realismo e di credibilità ha comunque il suo primo motore.

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Un altro uomo invisibile che galleggia in mezzo al mare del nulla, è arduo definirlo sia per tratti somatici che per età. Campa la vita lavorando, di contraggenio, in uno dei templi assoluti della brescianità e, ciò nonostante, ne prende ispirazione per le cose che scrive. Espulso da tutti i circoli cui si è aggregato, gli amici lo chiamano “Wikipedia” a causa dei discorsi incomprensibili e della pronunzia, che confonde in un unico suono le erre, le elle, le vu, le pi, le bi, le esse e le effe. Sostiene di essere pacifista, ma si vanta di aver redatto, molto tempo fa, alcuni testi rivoluzionari per un ex-guerrigliero irascibile e avarissimo, ora convertitosi al libero mercato.