Arundhathi Subramaniam – Love without a Story [Amore senza una storia]

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Il titolo della raccolta ad ampio spettro e sapientemente elaborata di Arundhathi Subramaniam fa immediatamente sorgere una domanda. O svariate domande. Può esistere l’amore senza una storia? Un amore senza – o estraneo a – tempi, mutamenti, luoghi, persone e tutti gli altri attributi di una storia, di una narrazione che si dispiega e si sviluppa costantemente? E se è così, cosa sarebbe esattamente l’amore senza una storia? Uno stato trascendente, metafisico? Un concetto teorico? Una forma platonica? Magari anche «La forza che nella verde miccia spinge il fiore» di Dylan Thomas?
Il titolo della raccolta è a sua volta tratto da The Fine Art of Aging, una delle poesie più lunghe – una poesia che affronta le complessità di emozioni ed esperienze attorno a temi fondamentali come il tempo, la morte e l’amore attraverso il personaggio di una Avvaiyar, «leggendaria poetessa e donna sapiente della letteratura tamil». È una figura che «vive in un volto / dove la guerra civile / è quasi finita», un’immagine che potrebbe far pensare a tutte le energie e le forze in gioco a cui siamo soggetti e di cui siamo eredi e che richiedono anche da noi – o generano dentro di noi – accettazione , rassegnazione, resilienza. Ed è qui, mentre l’Avvaiyar emerge in uno stato in cui non ha più «Nulla più da dichiarare … / nemmeno la nostalgia», che si conclude la terza sezione della poesia:

Perché gli amanti si appiattiscono
nelle foto,

le foto
nel ricordo,

il ricordo
nella quiete.

E poi cosa resta?

Forse solo la cosa più antica del mondo –
l’amore senza una storia.

Questo potrebbe, in un certo senso, ricordarci il «quasi istinto» che secondo Philip Larkin potrebbe essere «quasi vero» in An Arundel Tomb – cioè che «Quello che sopravviverà di noi è l’amore» – e tuttavia gli amanti di Subramaniam non sono commemorati in una «fedeltà di pietra» come quelli di Larkin; si disperdono nella «quiete» e si dissolvono, scompaiono dalla loro stessa storia. Siamo forse più vicini al celebre verso ritoccato da Auden in 1 settembre 1939, passando da “o” a “e”: «Dobbiamo amarci l’un l’altro e morire». Il pensiero di Subramaniam sembra oscillare tra il riconoscimento malinconico della nostra caducità fin troppo mortale e il senso di qualcosa di universale che ci precede e ci sopravvive, «la cosa più antica del mondo».
Allo stesso tempo, tuttavia, Love without a Story brulica di storie. La stessa The Fine Art of Aging si evolve in una narrazione sull’incontro di Avvayiar con un «dio ragazzo» ancorato al mito indiano che incoraggia un’interpretazione allegorica, mentre altrove nella raccolta ci vengono forniti accenni di altre storie, altri mondi meno mitici, spesso sotto forma di ricordi vividamente realizzati. In Deleting the Picture, «oltre la goffa brutalità / dei diciotto anni», Subramaniam ricorda:

Contro le chiese intonacate
e piantagioni di anacardi di verde fuso
ridiamo forte,
vitrei di birra, spruzzati di sabbia, sballati
per Sgt Pepper e Kishore Kumar.

O in Conversazioni, il ricordo di dialoghi condivisi «che lievitavano / come un impanso e si scioglievano / come il burro nei ristoranti iraniani a Bombay». Anche in The Need for Nests compare un amore che è molto con una storia, anche se noi, come lettori, non possiamo fare molto altro che immaginare il contesto narrativo:

… la lunga notte

e il dialogo amichevole
di respiro assonnato,

luce artificiale, animalità,
la grotta

e la promessa di risate
al mattino.

Allo stesso tempo, Subramaniam utilizza il linguaggio e la prosodia in modi che conferiscono all’opera un’energia insolita. Spesso scrivendo versi relativamente brevi, frequentemente organizzati in strofe di due o tre versi, infonde nelle poesie ritmi e suoni che sono allo stesso tempo controllati (nei loro effetti) e in qualche modo aperti, a loro agio.
La sua Song of Catabolic Woman – termine chimico relativo alla scomposizione di molecole complesse – spazia attraverso i glossari, ma è tenuta insieme da un ritmo lirico incisivo che richiama, non solo la forma di una ballata, ma anche la spoken-word performativa:

Siamo capaci di immobilità,
anche gironzolando,
capaci di saggezza
anche sbraitando.

Allo stesso modo in Let me be adjective, le parole si sviluppano in tesi schemi sonori che ricordano la sperimentazione modernista tra le due guerre:

Lasciami
modificare,
qualificare,
consacrare,
contrappuntare,
apostrofare,
parentetizzare,
inventare,
dissentire.
Lasciami prendere il volo.
Lasciami cantare

te.

Leggere Love without a Story, quindi, significa trovarsi alla presenza di una poetessa in grado di rendere il fisico e il quotidiano con una sorta di pienezza sensuale e al tempo stesso di esplorare le connessioni verso l’esterno su piani più trascendentali, a volte mitici dove una «Dea» diventa «il filo scandalosamente nudo / al centro del mondo // dove il tuo futuro è una / stella del mattino / da tempo bruciata». Verso la fine della raccolta, le due poesie Memo di Subramaniam sembrano rappresentare delle note a se stessa, non solo un promemoria, ma per molti versi una descrizione preliminare di ciò che rende il suo lavoro coinvolgente e vitale, creato, così com’è, tra «Non la conferenza / di occhi affamati, // ma la compagnia / di chi sta di traverso, // multilingue / in ascolto».


Traduzione di Andrea Sirotti

foto di Gabriele Sirotti
Andrea Sirotti è nato a Firenze, dove insegna lingua e letteratura inglese. Fa parte delle redazioni di «Semicerchio», rivista di poesia comparata, e di «Interno Poesia», blog e casa editrice per la promozione della poesia. Da più di vent’anni svolge l’attività di traduttore letterario, soprattutto di poesia e di narrativa postcoloniale in lingua inglese per varie case editrici tra cui Einaudi, Giunti, Rizzoli, Le Lettere, Elliot e Interno Poesia. Tra i poeti tradotti e curati figurano, tra gli altri, Carol Ann Duffy, Eavan Boland, Margaret Atwood, Arundhathi Subramaniam, Jane Hirshfield, nonché classici come Rabindranath Tagore, Emily Dickinson e Oscar Wilde. Curatore e co-curatore di antologie poetiche “a tema”, ha al suo attivo: L’India dell’anima, antologia di poesia femminile indiana contemporanea in lingua inglese (Le Lettere, Firenze 2000, [seconda edizione, 2006]); Men/Uomini, ritratti maschili nella poesia femminile contemporanea, con Giorgia Sensi (Le Lettere, Firenze 2004) e Gatti come Angeli, antologia di poesia erotica femminile in lingua inglese, con Loredana Magazzeni (Medusa, Milano 2006).
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Tom Phillips è nato nel Buckinghamshire nel 1964. È scrittore freelance e docente ospite presso varie università britanniche e balcaniche. Vive a Bristol, Regno Unito, dal 1986, ma dal 2000 ha spesso viaggiato nella penisola balcanica e molti dei suoi interessi letterari e di ricerca sono focalizzati sulla regione. È stato pubblicato in molte riviste, antologie e opuscoli e ha pubblicato tre libri di poesia nel Regno Unito: “Recreation Ground” (“Terra di ricreazione”, Two Rivers Press, 2012), “Reversing into the Cold War” (“Inversione nella Guerra Fredda”, Firewater/Poetry Monthly, 2007) e “Burning Omaha” (“Bruciando Omaha”, Firewater, 2003) e un libro bilingue di poesia in Bulgaria: “Unknown Translations / Непознати преводи” (“Traduzioni sconosciute”, Scalino, 2016). È autore di numerosi spettacoli teatrali, di cui “Coastal Defences” (“Le Difese Costiere”, Tobacco Factory Theatres - Teatri della Fabbrica del Tabacco, Bristol, 2014) e “100 Miles North of Timbuktu” (“100 Miglia a Nord di Timbuctù”, Alma Tavern Theatre - Teatro della Taverna Alma, Bristol, 2013) hanno riscosso il più grande successo teatrale.

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