Michele Curatolo – In viaggio con il Maestro

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1854

Il Maestro è una vivente reincarnazione mediana fra Yoko Ono e John Lennon, come se nei suoi lineamenti, nei suoi gesti, e persino nei suoi abiti, si fosse misteriosamente impresso il marchio della coppia più stravagante del rock. Della “gran puttana gialla” ha l’aria indecifrabile, gli occhi lievemente a mandorla e quel sorriso obliquo, così tipico dei giapponesi. Del baronettodi Liverpool il labbro peloso, gli occhiali tondi, la pinguedine appena accennata sotto il maglione. Di Lennon è anche un suo certo fare egocentrico e lievemente provocatorio, a metà fra il guru e l’agitatore politico. Solo quella coda alla Fiorello gli rovina tutto l’effetto! Come ha potuto mescolare il look di John e Yoko con l’acconciatura dell’ex-animatore dei villaggi turistici di Augusta, ormai star indiscussa della moderna società dello spettacolo?

Al termine del suo corso di scrittura creativa il Maestro ha riunito i suoi allievi per l’ultima lezione prima della pausa estiva. È una sera tiepida di fine primavera: siamo tutti convenuti nell’aula del consiglio comunale di Castel Mella, messaci cortesemente a disposizione dalla giunta leghista del paese. Anelanti come cerbiatti alla fonte, ascoltiamo il Maestro e ci abbeveriamo alla sua sapienza. Ma dalle sue prime parole capisco al volo dove vuole andare a parare: sento già risuonare nell’aria quelle espressioni così tipiche di un’epoca ormai persa lungo il fiume del Tempo. Gli anni Sessanta sono passati da quasi mezzo secolo, ma il Maestro ci ripete frasi simili a quelle che John Lennon, sotto il duplice effetto della cultura indiana e dell’LSD, scrisse nel 1966 in Tomorrow Never Knows, l’ultimo enigmatico episodio di Revolver:

Turn off your mind relax and float downstream

It is not dying it is not dying

Lay down all thoughts surrender to the void

It is shining it is shining

That you may see the meaning of within

It is being it is being

Scommetto che, di questo passo, nelle sue parole sentiremo l’eco del duetto fra il sitar di Ravi Shankar e la chitarra di George Harrison, come in Sergeant Pepper (anno di grazia 1967).

Aspetta, aspetta. Che cosa fa adesso il Maestro? Si avvicina a un impianto stereo nell’angolo dell’aula. Armeggia intorno ad esso con fare ispirato, preme un bottone e, o meraviglia!, incomincia davvero a diffondersi una musica sognante al pianoforte! E poi che altro? Spegne la luce! Mamma mia! È decisamente fuori. Vedrai che fra un po’ ci offrirà una canna… Ma qui siamo a Castel Mella, dove la Lega Nord ha da poco proclamato la “tolleranza zero” contro tutti gli spacciatori, soprattutto se extracomunitari! E Yoko Ono, in quanto giapponese, è extracomunitaria! Se per sbaglio arrivassero in aula i militi delle Ronde Padane saremmo fritti!

Bada, Maestro, non siamo mica a San Francisco nella Summer of Love del 1967, non apparteniamo al beautiful people, di Charles Manson i più hanno perso ogni memoria. Siamo nella concreta, operosa provincia bresciana, aliena, almeno a parole, da ogni trasgressione, dedita al guadagno, orgogliosa della propria efficienza, amante delle automobili robuste e veloci, lontana da ogni fantasia. E invece no. Il Maestro insiste: niente canne, ma un ultimo esercizio; mentre la musica si diffonde soffusa, ci parla così:

«Immaginate, ragazzi, immaginate. Immergetevi nelle vostre fantasie. Pensate a una foresta, a una foresta immensa ai limiti della città. È nera e misteriosa, forse paurosa, ma questo non vi interessa. Voi, ciascuno di voi, ha deciso di inoltrarsi al suo interno. Ecco» mormora il Maestro «vi siete inoltrati e ognuno di voi, ognuno seguendo il proprio percorso, ha trovato la casa antica, seminascosta nel folto degli alberi secolari».

Oh no! Ci mancava pure la foresta immensa ai limiti della città! Sarà anche una metafora, ma non troppo appropriata, mi sembra. Non sa il maestro che nella Pianura Padana (o, come si dice oggi, in Padania) le foreste sono state abbattute da secoli? O da millenni? Saranno stati i fierissimi Celti, di cui i Romani fecero strame all’epoca della seconda guerra punica o, più modestamente, i frati benedettini, quelli dell’Ora et labora?

«Adesso ciascuno di voi è davanti alla casa. La guardate in silenzio e pensate. Vi meravigliate di trovarla lì, ma è come se l’aveste saputo da sempre. Come se quella casa fosse vostra; anzi, come se voi foste quella casa!».

Pensa un po’! Trasformato in casa, poi…

«La porta è aperta, scricchiola sui cardini. Entrate nella casa, ragazzi, ve ne prego. Vedete quella botola in mezzo all’unica stanza? Avvicinatevi e scorgerete una scala. Una scala lunga che scende, oscura, profondissima. Percorretela e scendete anche voi, scendete, scendete! Ecco, siete arrivati in fondo, e vi trovate in una stanza ancora più piccola, ancora più scura. E là, presso il muro, vedete i bauli, rischiarati appena da una luce fosforescente. Tanti bauli quanti siete voi. A ciascuno il suo».

I bauli fosforescenti? Unicuique suum? Ma che razza di lezione è questa?

«Avvicinatevi ai bauli, ragazzi, avvicinatevi. Ogni baule porta inciso il vostro nome. I bauli sono vostri; anzi, i bauli siete voi. Lo vedi il tuo, Riccardo?».

Annuisco senza parlare. Diciamo di sì, diciamo che lo vedo il mio baule, Maestro. Ma ancora una volta la tua metafora è sbagliata. A me non importa nulla essere paragonato a un baule. Ma che cosa penseranno di te le ragazze del corso? Non è molto carino dir loro che improvvisamente si sono trasformate in bauli. Si offenderanno.

«Li vedete i bauli? Sono di legno, con borchie di ferro rugginoso. Provate ad aprire il cofano ma, per quanti sforzi facciate, non ci riuscite. Tutti i bauli sono chiusi. Ora infilate la mano in tasca, ragazzi. Che cosa trovate? Una chiave, ciascuno la sua chiave. Le chiavi sono vostre; anzi, prestate attenzione a queste mie parole, le chiavi siete voi o, ancora meglio, VOI SIETE LA CHIAVE!».

Sì, d’accordo! Case nella foresta, porte, bauli, chiavi. Ma che cos’è, Alice nel paese delle meraviglie? Fra un po’ verranno fuori Bianconiglio e la Regina di Picche a tagliare la testa a tutti!

«Ora la chiave è nelle vostre mani, la infilate nella serratura del vostro baule, la girate, e fate scattare il meccanismo. Ecco, avete aperto il cofano. Riuscite a vedere che cosa contiene il baule? Sono segreti, i vostri segreti; anzi…».

Voi siete i vostri segreti!

«Zitto, per favore, Riccardo… Anzi, voi siete i vostri segreti. Ora voglio che chiudiate gli occhi e, nel massimo silenzio, voglio che gettiate sui vostri segreti la luce della mente. Non importa che scriviate, adesso. Scriverete a casa. Basta che pensiate: da voi voglio immagini, suoni, colori…».

Proprio come George Harrison in Within You Without You, il Maestro ci ha invitato a chiudere gli occhi, a sgombrare la nostra mente dai pensieri, ad abbandonarci alle nostre immagini interiori, a scoprire la vita che scorre dentro e fuori di noi:

Try to realise it’s all within yourself

no-one else can make you change

and to see you’re really only very small

and life flows on within you and without you

 

E sia, scopriamo pure la vita che scorre nel baule. Se ci riuscivano i Beatles con il Maharishi nell’ashram diRishikesh, ci potrei provare anch’io con il Maestro nell’aula consiliare di Castel Mella. Ma stasera sarà dura davvero. E poi, non con questa musica! Davvero la scelta del Maestro non è all’altezza. Bah! Non dico un concerto di musica indiana (so per esperienza che, dopo dieci minuti di sitar, l’unica cosa che si prova è il desiderio di fuggire lontanissimi) ma, se proprio voleva tornare agli anni Sessanta, avrebbe potuto proporci qualcosa di diverso. Avrei accettato persino i Beach Boys o, ancora meglio, i Doors, ma questi dozzinali fraseggi al pianoforte, che si mescolano con le sue parole, proprio non riesco a digerirli.

Ma, evidentemente, il Maestro è un profondo conoscitore della psiche umana, e della nostra in particolare. Anni e anni di studio e di esperienza gliel’hanno sviscerata alla perfezione. Sembra infatti che davvero questa musica e le sue parole abbiano effetto su di noi. Mi guardo in giro, nella fioca luce dell’aula comunale di Castel Mella, piccolo centro lombardo retto a schiacciante maggioranza dalla Lega Nord, e vedo con sorpresa che gli allievi attorno a me hanno tutti chiuso gli occhi, e si sono abbandonati sulle sedie, immersi in profondissima meditazione. Vuole dunque delle immagini, il Maestro? Vuole segreti? Vuole ricordi? E va bene! Visto che qui lo fanno tutti, chiudo gli occhi e ci provo anch’io:

Un grande mare indistinto, ma non limpido, non calmo: lutulento, fangoso, ribollente, oscuro. E vortici sulla sua superficie, anzi, un unico grande Maelström vorticante. E dal Maelström affiorano, e subito s’inabissano resti di un grande naufragio: dalla consistenza ectoplasmatica appaiono persone, pensieri, oggetti, avvenimenti.

Accidenti, che fatica! Stasera, più che a un corso di scrittura creativa, mi sembra di partecipare alla riunione di una setta: ormai non siamo più gli allievi del Maestro, ne siamo gli adepti. Ma se non fossi, come tutti gli adepti, incline all’adorazione, penserei di certo, nella mia blasfemia, che il Maestro è proprio fuori di testa.

Sapevo di essere al cospetto di una mente superiore, ma questa volta la mente da superiore è divenuta suprema. Frequento da mesi i suoi corsi in cerca di una techné da artigiano, di una maniera tranquilla e efficace per progettare, per riordinare le mie idee, di schemi semplici e pieni di buon senso attorno ai quali far ruotare i miei pensieri, e il Maestro che cosa fa? Confonde i miei approcci da bresciano tranquillo invitandomi al viaggio interiore, senza neppure avermi fornito di un po’ di acido… No, l’acido è meglio di no. Ci sono le Ronde Padane qui intorno. E poi l’acido è fuori moda, nel Duemila. Adesso a Brescia, in pieno accordo con le abitudini locali, si preferisce la cocaina, la droga che fa andare più veloci.

Pure, il Maestro ci sta riuscendo! Musica e parole stanno compiendo il prodigio. Nonostante comprenda chiaramente la contrarietà della situazione al senso comune, percepisco che sto per cedere alla marea delle alte meraviglie dei miei pensieri. Mi sembra tutto così stupido, ma il gorgo da me evocato mi sta trascinando verso il fondo di me stesso. Prima di abbandonarmi, per un attimo si affaccia nella mia mente la frase di Hermann Goering, il più fatuo dei camerati dell’Adolfo, quando, in pieno Bundestag, in stivaloni e camicia bruna, guardando gli intellettuali che sedevano sui banchi dell’opposizione, con un lampo di placido sarcasmo negli occhi suoi porcini di un azzurro slavato, pronunciava con noncuranza il distico (traduco a braccio):

Quando sento parlare di cultura

dalla mia Browning tolgo la sicura

E mentre mi perdo nel gorgo, ho appena il tempo di pensare che, per quanto tutto mi separi dal quel grassone di Hermann, in una cosa non riesco davvero a dargli torto. Che brutta cosa, gli intellettuali!

Il sapore della candeggina che bevvi a due anni, eludendo la sorveglianza occhiuta della madre, e il latte caldo che lei mi dette subito dopo per farmi vomitare. Una bicicletta, e un cortile dal fondo di cemento, una caduta e un urlo straziante, e la corsa in ospedale, la mano di mio padre che teneva la mia, mentre il medico mi operava alla gamba. E volti: la suora dell’asilo, dai neri occhiali con lenti affumicate, che ci radunava a colpi di fischietto (un fischietto cilindrico, di legno, con un bocchino d’argento) il cui suono stridulo tanto mi terrorizzava. Il maestro occhialuto che troneggiava gigantesco sopra di me. La professoressa d’inglese delle medie che mi sbatteva fuori dall’aula. E quell’esame all’università con l’assistente che insisteva mellifluo con il professore perché mi convincesse a tornare la prossima volta, cosa che lui puntualmente fece.

Il Maestro ci ha chiesto immagini e colori. Ma a me non ne vengono. Solitamente io sogno in bianco e nero, se davvero sogno. E poi i miei sogni al risveglio li ho sempre dimenticati. Né immagini né colori: solo ricordi come lampi in un temporale notturno. Lucidi spiragli sul passato, grappoli di parole, pezzi di vita vissuta. Mi sfugge, il senso dell’operazione del Maestro. E, soprattutto, non riesco a comprendere quanto di utile possa portare a me.

Gli sci gialli che avevo da ragazzo, e i capitomboli sulla neve, non sulle piste ma persino dallo ski-lift. Com’ero negato! E le serate passate durante quelle festine adolescenziali. Quella volta che preparammo tutto a puntino: giradischi, luci basse, addobbi, tartine e Coca-Cola e poi, per timidezza, nessuno di noi ebbe il coraggio di invitare le ragazze. Sicché rimanemmo tutti soli, smarriti e delusi a guardarci tristemente l’un l’altro fino a notte alta. E, quando le ragazze finalmente erano state invitate, lo strano nostro stupore verso quelli più abili che si strusciavano con loro, e noi nel buio solitari e silenziosi a pensare che un giorno anche noi l’avremmo fatto esattamente nello stesso modo; ma poi, in verità, non lo facemmo mai in quel modo, ma quando capitò, fummo noi i primi a sorprenderci che dentro di noi sonnecchiasse uno sconosciuto, che si risvegliava di tanto in tanto, e ci turbava con i suoi slanci incontrollabili.

E i sensi di colpa: la zitella amica dei miei genitori cui candidamente io dissi che la ragione per cui non trovava nessuno da sposare era perché era proprio brutta, e lei che cambiava espressione davanti a me, piena di dignità offesa, e per la prima volta ebbi la percezione del dolore e della solitudine; la ragazza cui saltai addosso un pomeriggio mentre facevamo i compiti, e lei che si ritraeva inorridita: quello fu il giorno in cui incominciai a nutrire i primi dubbi sul mio aspetto. E la grande, assoluta, dispotica dominatrice della mia vita: la Paura! E la triste meraviglia che ancora mi prende oggi, quando rifletto di non esserne ancora venuto a capo.

E poi le cose per cui vale la pena di andare avanti: la vita in sé, che ogni giorno è caleidoscopica, non bella né brutta, soltanto fluente nel suo scorrere. Il germe sottile della speranza che rinasce ogni mattina, una speranza minima, ormai, ma ancora nutriente. E poi, sì, le cose ovvie, che dicono tutti: l’amore, l’amicizia, il piacere, la musica, il cinema, l’arte, il calcio, e l’Inghilterra e, sì, loro, i libri, i maledetti piccoli mostri che ancor oggi mi imprigionano nella loro palude cartacea, che mi legano con i loro fili di inchiostro, che mi impediscono di uscire da stanze che ormai mi vanno strette.

La vita che ho vissuto, la vita che vivrò: desiderio di gloria, desiderio di serenità. Da dove vengo? Dove sono? Dove andrò? Mi consumo mentre esisto, vorticando nel fangoso cerchio del grande Maelström. Ho paura! Esisto, mi consumo, mi dissolverò! Perché non sono immortale?

Basta! È finita. Il Maestro ha riacceso la luce, e ha interrotto la musica. Esco come da un incubo, provando vergogna per essermi perso in questi stupidi slanci da adolescente, e riprendo il controllo di me stesso. Ma qualcosa in me è mutato. Il pensiero mi sorprende proprio quando il Maestro, con il suo tono lepido e noncurante, mi chiede:

«Riccardo, per favore puoi spiegare agli altri, e soprattutto a te stesso, quali emozioni ti ha suscitato questo esercizio?».

Esercizio? Ma se non ha voluto che scrivessimo neanche una riga! Solo a pensare siamo stati costretti. E poi a che scopo quella musica dozzinale? Che significa questa incongrua autoimmersione nella psichedelia, con quarant’anni di ritardo? Questi viaggi mentali senza neanche un coadiuvante chimico? Tipica del Maestro, la domanda! Fra le sue debolezze, c’è il desiderio di sorprenderti e di confonderti, con provocazioni allusive e accuratamente mirate.

Adesso lo sistemo io. Risponderò così, freddo e tagliente come una lama di coltello, analizzando con fare distaccato e lievemente acido le mie pulsioni, con piena padronanza dei miei atti e delle mie parole, icastico, senza dare a vedere a nessuno il turbamento che ancora mi prende:

«Oggettivamente» dico (che bell’avverbio ho trovato per incominciare) «mi è parso un esercizio piuttosto stravagante, una via di mezzo fra lo stream of consciousness di Joyce, e lo psicologismo d’accatto. Cose già viste, già sentite, già vissute, già scritte da altri. Non ho provato alcuna emozione!».

     Eccoti servito, Maestro! Beccati questo segno palese della mia contrarietà. Il Maestro mi guarda da dietro gli occhiali lennoniani, con un sorriso decisamente yoko-oniano. Non l’ho mai visto così orientale. Si limita a chiedermi, come se già avesse capito tutto:

«Ne sei proprio sicuro, Riccardo? Non dire più nulla, ora, ma prova a pensarci. E voi tutti, ragazzi, pensateci e, magari, scrivetene» dice chiudendo l’incontro «È l’ultimo insegnamento per quest’anno. Se saprete meditarlo, e trasferirlo nei vostri lavori, il mio corso avrà avuto una qualche utilità».

Sono dunque sicuro di ciò che ho risposto? E no, che non ne sono sicuro, Maestro. So bene che quanto ho appena detto non corrisponde a ciò che ho sentito. Se miravi a suscitare dentro di me una sequenza di emozioni, ebbene, ci sei riuscito, per quanto in modo assolutamente bislacco.

Mentre in auto rientro a Brescia, provo davvero a ripensarci. Come suggerisce il Maestro, l’emozione mi ha colpito, questo è certo, ma non mi è piaciuto. Perché? Per l’ambiguo rapporto che lega l’emozione alla scrittura, forse? Sì, è così… l’emozione non è un’amica sincera della scrittura: la lusinga, certo, ma solo per piegarla, per stravolgerla, per inquinarla. Come il ladro nella notte, l’emozione deruba silenziosamente la scrittura da quel senso di assoluto che è il suo bene più prezioso. Non è l’emozione ciò a cui miro.

L’emozione mi ha colpito, è vero, come sempre quando penso ai relitti delle cose passate, e rifletto sui loro effetti sul tempo presente. Emozione piccola e spuria, direi, perché a fare questi pensieri sono anche troppo abituato. Da molti anni. Davvero vorrei qualcosa di diverso da questa emozione minimale. Vorrei trascenderla, superarla, sublimarla. Vorrei di più. Di meglio. Ma che cosa?

E, d’improvviso, ecco l’illuminazione! A nulla mi servirà l’emozione, se non scoprirò dentro di me il segreto della parola per esprimerla e raccontarla. E non per raccontarla solo a me stesso, come se rinnovassi dentro di me il medesimo discorso, ma per dare alle mie storie un respiro universale e sempre nuovo. A qualcosa, dunque, è servito il viaggio con il Maestro! A questa meta sono stato condotto: mi è chiaro in un istante, come se l’avessi saputo da sempre, che per me non contano le immagini, i suoni, i colori, se restano in me. Quello che conta, quello da cui tutto nasce, da cui tutto si produce, il respiro primordiale di un essere assoluto che muove l’universo intero, è per me la Parola, la Parola da dire a tutti.

LA PAROLA. Edifica mondi, costruisce vite, crea, pulsa, vive dall’inizio dei tempi. Ecco ciò che dà senso al ribollente riaffiorare di quei relitti dalle profondità del mio essere. Ecco ciò che conosce l’inconoscibile. Rivela il segreto. Supera, svelandola, ogni possibile emozione. LA PAROLA. Dono divino che permette a chi sa usarne i poteri di parlare la lingua degli angeli e dei demoni. LA PAROLA. Bianca. Abbacinante. Assoluta. A essa voglio abbandonarmi, non all’emozione. LA PAROLA.

In principio erat Verbum

Et Verbum erat apud Deum

Et Deus erat Verbum

E spontaneo dal mio petto sgorga ora esultante il mio ringraziamento per il Maestro! Come l’avevo giudicato male! Sei meglio di Yoko Ono (questo non è difficile), sei meglio di John Lennon (questo sì, che è difficile), o Maestro. Ora, che sono stato illuminato, comprendo chiaramente che nulla di terreno e forse di celeste è paragonabile alla tua millenaria saggezza. Sei più grande del Mahatma, sei più fulgido di un vivente Avatar, sei più rivelatore di un’enciclica pontificia. Tutto quell’oscuro apparato con cui stasera hai temprato le nostre coscienze aveva dunque un senso. È stato grazie a te, grazie ai tuoi inauditi ghirigori psico-intellettuali, da me ingiustamente bollati prendendo a prestito il facile sarcasmo di un nazista, che sono potuto scendere nel profondo di me stesso. Come fa il naufrago che approda sulla spiaggia, ho riportato alla superficie e dato un senso agli sparsi materiali che mi giacevano dentro. Prima del tuo avvento non significavano nulla, anche se mi ossessionavano con i loro richiami. Sei stato tu, o Maestro, ad avermi rivelato che cosa li unisce, che cosa li esprime, che cosa li spiega: LA PAROLA.

È grazie alla tua rivelazione che ora mi sento pronto ad avventurarmi sul terreno della scrittura. Grazie a te ho finalmente compreso che, al di là delle emozioni, esiste qualcosa di più alto, di più profondo, di più vero: esistono le storie. E se esistono le storie, esisterà anche chi le ascolterà. È da qui che partirò alla ricerca di vicende sempre nuove da raccontare. E la prima sarà la storia di stasera, la storia del mio turbamento, della mia illuminazione, della mia esultanza. Sarà la storia del mio viaggio con il Maestro. Sarà quella che proprio ora termina qui.

FINE

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Un altro uomo invisibile che galleggia in mezzo al mare del nulla, è arduo definirlo sia per tratti somatici che per età. Campa la vita lavorando, di contraggenio, in uno dei templi assoluti della brescianità e, ciò nonostante, ne prende ispirazione per le cose che scrive. Espulso da tutti i circoli cui si è aggregato, gli amici lo chiamano “Wikipedia” a causa dei discorsi incomprensibili e della pronunzia, che confonde in un unico suono le erre, le elle, le vu, le pi, le bi, le esse e le effe. Sostiene di essere pacifista, ma si vanta di aver redatto, molto tempo fa, alcuni testi rivoluzionari per un ex-guerrigliero irascibile e avarissimo, ora convertitosi al libero mercato.

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