Lo scafandro e la farfalla

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1947

Il libro è una delle armi più potenti dell’essere umano e Jean-Dominique Bauby questo lo ha capito. Caporedattore della rivista Elle, Jean-Do è un uomo esuberante, dinamico, alla ricerca di nuove esperienze, ma l’8 dicembre 1995 un ictus stravolge la sua vita per sempre, conducendolo in un coma profondo per tre settimane.

Al suo risveglio si rende conto di aver perso ogni funzionalità motoria, dalla testa ai piedi, bloccato in quella che la medicina chiama locked-in syndrome. Completamente imprigionato nel proprio corpo, la sua mente brillante esce da quello scafandro che gli impedisce qualsiasi espressione diretta col mondo, o quasi: Jean-Do difatti riesce a muovere l’occhio sinistro e a comunicare attraverso un battito di ciglia. Mentre l’ortofonista recita l’alfabeto lui, con quel battito di ciglia, indica una lettera alla volta, componendo parole e intere frasi. E decide di raccontare la sua esperienza in un libro, lasciando vagabondare il proprio pensiero come una farfalla. 

Lo scafandro e la farfalla è l’opera autobiografica del giornalista francese che decide di riscoprire sé stesso: attraverso la sua malattia egli effettua un percorso di rinascita, che gli permette di riflettere sulla propria esistenza e sulle occasioni mancate. Nonostante la sua esperienza, rimane vigile e pronto a ironizzare su ciò che lo circonda, guardando il mondo dalla piccola fessura del suo occhio. Ogni mattina Jean-Do pensa ai capitoli da dettare alla redattrice del suo editore, che pazientemente trascrive ogni sua riflessione.

Dal terrazzo dell’ospedale di Berck-sur-Mer, che lui chiama Cinecittà, decide di combattere per la propria libertà e, dopo un iniziale rifiuto di vedere i suoi cari, ritrova la propria identità attraverso la voce degli affetti. Il libro è stato pubblicato nel 1997, tre giorni prima della morte dell’autore.

Nel 2007 il regista statunitense Julian Schnabel dirige magistralmente l’adattamento cinematografico del libro di Bauby, conquistando il premio per la miglior regia al Festival di Cannes e quello per il miglior film straniero ai Golden Globe. Attraverso un meticoloso lavoro di prospettive, il regista riesce perfettamente ad alternare il punto di vista del protagonista (interpretato da Mathieu Amalric) a quello del mondo esterno, realizzando un capolavoro che non ricorre a sentimentalismi. Il film rimane fedele al libro, restituendo la stessa ironica vivacità che si può ritrovare nelle parole del giornalista. Nella parte finale aumentano i flashback di quell’esistenza sfarzosa che non potrà tornare: la memoria e l’immaginazione sono gli unici mezzi che Jean-Do ha per vivere, le uniche chiavi per aprire il suo scafandro.

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