Oggi vorrei parlarvi non tanto dei libri, ma di noi: di come i libri (o la loro assenza) raccontino chi siamo.
Ogni anno escono nuovi dati sulla lettura in Italia, e ogni anno sembriamo stupirci, come se fosse una novità: solo il 40% degli italiani sopra i dieci anni legge almeno un libro all’anno. Non dodici, non sei: uno solo. E in quel 40% sono compresi coloro che si fermano a metà, che leggono solo la quarta di copertina o qualche pagina. È una percentuale che, se fossimo in una classe, equivarrebbe a dire che sei studenti su dieci non hanno mai aperto un libro – non perché non possono, ma perché non vogliono.
Non serve scomodare le statistiche europee per capire che non è normale. Ma se le guardiamo, il confronto è impietoso. In Svezia, Danimarca, Finlandia, Norvegia – i Paesi che amiamo citare quando parliamo di civiltà – oltre il 70% della popolazione legge regolarmente. Non si tratta solo di reddito o di istruzione: si tratta di cultura civile. In Francia la lettura è un diritto collettivo, tutelato e promosso; in Germania la biblioteca pubblica è un luogo frequentato come un mercato, o un parco. Da noi, invece, la biblioteca è spesso chiusa il pomeriggio o aperta “a discrezione del personale disponibile”. È una differenza che non riguarda solo i libri, ma l’idea stessa di comunità.
Perché in Italia leggere è ancora considerato un lusso, o peggio: un vezzo. C’è un fondo di diffidenza, quasi un sospetto morale verso chi legge troppo. “Ha tempo da perdere”, si dice, o “sta sulle nuvole”. È il nostro provincialismo travestito da pragmatismo: un Paese che ammira il genio ma disprezza lo studio, che celebra i poeti morti ma si vergogna dei lettori vivi.
Eppure la scuola ci prova. Ma la scuola, da sola, non basta. Perché la lettura non nasce né per decreto, né per obbligo scolastico: nasce dal contatto quotidiano con chi legge. E qui entrano in gioco la famiglia, la televisione, la rete, la politica. Pensateci: quanti adulti vedete leggere per puro piacere? Quanti genitori o insegnanti mostrano un libro ai figli senza che sia “utile”? Quanti politici italiani citano un romanzo senza farlo per posa? Purtroppo, è difficile vedere un adulto con un libro in mano. Non ci mancano i lettori: ci mancano i modelli.
Quando dico che la mancanza di lettura è un problema nazionale, non parlo solo di cultura. Parlo di linguaggio, di pensiero, di cittadinanza. Un Paese che non legge è un Paese che non sa più nominare le cose, e di conseguenza non sa più riconoscerle. È un Paese che si affida agli slogan, alle semplificazioni, alle urla. Lo vediamo nella politica, nei social, perfino nelle conversazioni quotidiane: la povertà lessicale diventa povertà di pensiero.
Eppure la lettura non è una gara, non è uno status symbol, come troppo spesso succede da noi. Leggere dovrebbe essere un piacere libero, non una medaglia. In Italia anche questo, invece, diventa un esercizio di distinzione sociale: chi legge vuol dimostrare qualcosa, chi non legge se ne vanta. In questo continuo oscillare tra snobismo e ignoranza ostentata si riflette forse la nostra vera malattia culturale: la paura del giudizio. Leggere non serve a sembrare intelligenti, ma a diventarlo un po’ di più, a capire meglio il mondo e le sue sfumature.
Guardate la geografia della lettura: il Nord legge più del Sud, e la spiegazione non è solo economica. Al Sud mancano librerie, biblioteche, spazi pubblici, ma soprattutto manca la percezione che la cultura sia un bene necessario. Laddove lo Stato non arriva, arriva la rassegnazione: non c’è, quindi non serve. E così intere generazioni crescono senza luoghi in cui la parola scritta possa diventare esperienza viva.
Non è un caso che i Paesi europei nei quali si legge di più siano anche quelli in cui si discute di più, in cui il dibattito pubblico è più maturo e la fiducia nelle istituzioni più alta. Leggere allena al dubbio, alla complessità, alla lentezza. In una società che pretende tutto e subito, la lentezza è rivoluzionaria.
Non è vero che, come affermano in molti, “non c’è tempo per leggere”. È solo che preferiamo dedicare il tempo a qualcos’altro. È un problema di priorità, non di orologi. Quando diciamo “non ho tempo”, stiamo dicendo “non mi interessa abbastanza”. E allora forse dovremmo chiederci che idea abbiamo della cultura: se la consideriamo un bisogno o un passatempo, un diritto o un intralcio.
Ecco perché i dati sulla lettura non sono solo numeri: sono uno specchio. Ci mostrano un’Italia che studia ma non pensa, che comunica ma non dialoga, che vive di immagini ma non di idee. Se vogliamo cambiare, dobbiamo ricominciare da lì: da un libro aperto, da una frase sottolineata, da un silenzio che non è vuoto, ma concentrazione.
Perché leggere – e questo, credetemi, non è retorica – è un atto politico. Non nel senso di “partitico”, ma nel senso originario di polis: di costruzione della città, della civiltà. Ogni lettore in più è un cittadino più libero, meno manipolabile, più capace di pensare con la propria testa.
E allora sì, forse l’Italia comincerà a cambiare davvero quando leggere smetterà di essere una stranezza o un vizio elitario, e tornerà a essere un gesto normale, quotidiano, vitale, per tutti.
Heiko H. Caimi





















