Pete Townshend – White City: a Novel

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Quando si parla di Pete Townshend solista, tutti si fermano (giustamente) a Empty Glass – l’urlo disperato e poetico di un uomo a pezzi che cerca la salvezza nella musica e nella fede. Ma c’è un altro disco che non è meno potente, anzi… è più lucido, più politico, più cinematografico: White City: A Novel (1985).

Non è un disco facile. È un romanzo urbano sotto forma di concept album – non una raccolta di brani, ma un vero racconto in musica, ambientato nel quartiere white working class a ovest di Londra, vicino a Shepherd’s Bush, nel quale Pete è cresciuto. Il protagonista è un uomo alienato che racconta la disgregazione culturale, razziale e identitaria della sua città. È una riflessione sul tempo che passa, sui sogni che si rompono, su chi ce la fa e su chi resta ai margini.
Ma il bello è che tutto questo ti arriva con chitarre taglienti, synth tesi come corde d’acciaio e una batteria che ti strappa la giacca.
E poi c’è il cast, tra cui spiccano David Gilmour (qui in veste di ombra e mago del suono: i suoi assoli sembrano radar emotivi: lirici, ma anche feroci) e Simon Phillips (uno dei batteristi più tecnici e creativi del rock, che ha lavorato, tra i tanti, con Toto, Jeff Beck, Mike Oldfield: con lui la batteria diventa parte narrativa; se alscolti bene certi incastri ritmici, capisci che non sono solo percussioni, ma colpi di scena).

Give Blood è un’apertura da battaglia. Il basso e la batteria pulsano come un cuore sotto stress, e Gilmour arriva con un assolo che sembra un grido nel vento. Il messaggio è chiarissimo: non limitarti a parlare, dona qualcosa di vero. È una chiamata morale, spirituale, sociale. Pete è stanco delle parole vuote. E chiude con quel grido: Give life… give love… che ti rimane addosso.

Brilliant Blues è una canzone più rilassata, ma solo in apparenza. Qui c’è un cinismo elegante, quasi alla Bowie: parla di disillusione, di grandi sogni svaniti sotto la luce al neon di una città che ha perso se stessa. Il blues del titolo è più uno stato d’animo che un genere. Le chitarre sono liquide, sfuggenti, e Pete canta con una voce stanca, ma lucida.

Face the Face è una bomba funk-pop-rock geniale: un ritmo ipnotico, una sezione fiati esplosiva, cori gospel e, sotto sotto, il solito tema: chi sei davvero quando guardi in faccia te stesso? È uno dei pochi brani in cui Pete si diverte davvero, e si sente.

Hiding Out gode di un’atmosfera notturna intessuta di tastiere sospese e di una voce che si nasconde (come suggerisce il titolo): Pete canta di un amore spezzato, o forse di un’amicizia perduta. È un pezzo sulla paura di mostrarsi, sulla tentazione di sparire. Il solo di Gilmour arriva come una carezza fredda. Da brividi.

Secondhand Love è un brano meno conosciuto, ma pieno di energia. C’è amarezza in ogni nota, una rabbia contenuta. Il testo è spietato: You get what you pay for. You pay for what you get. E, sotto, quel groove quasi new wave, che non ti molla. È una piccola bomba pronta a esplodere sul palco.

Con Crashing by Design entriamo nel cuore emotivo del disco. Un pezzo delicato, malinconico. È come se Townshend si sdraiasse sul pavimento e ci raccontasse che certe cose sono destinate a fallire, perché costruite su fondamenta sbagliate. Ma lo fa con una tenerezza struggente.

White City Fighting è uno dei vertici assoluti. La chitarra di Gilmour è protagonista: stratificata, epica, quasi cinematografica. Il pezzo racconta le tensioni razziali, i conflitti giovanili, la violenza strisciante dei sobborghi. È rock urbano, ma filtrato attraverso una sensibilità quasi sinfonica. Gilmour e Townshend, qui, sono due narratori in perfetta armonia.

Il finale, sporco e sensuale, è affidato a Come to Mama: un po’ Stones, un po’ Talking Heads. Il protagonista, dopo aver attraversato rabbia e solitudine, si arrende a un bisogno primario: contatto, calore, rifugio. Il brano è spigoloso, viscerale. Un’ultima vertigine prima della dissolvenza.

White City: A Novel non è il disco più famoso di Townshend, ma è forse il più coraggioso. È rock d’autore nel senso più pieno, un album che cerca di raccontare una città, una generazione e anche un pezzo d’anima. E il fatto che Gilmour e Phillips siano lì non per abbellire, ma per amplificare il racconto, rende tutto ancora più prezioso. Non è un disco che si ama subito, ma uno di quelli che, una volta che li hai dentro, non escono più.

Ed è anche uno dei momenti rock più esaltanti degli anni ’80, per una serie di motivi che uniscono cinematografia, tematiche forti, suoni moderni e una visione personale forte: Townshend, infatti, non si limitò al vinile, ma scrisse e interpretò un film/video di un’ora circa diretto da Richard Lowenstein e girato in 35 mm, con atmosfere da lungometraggio e la qualità sonora di un film Dolby Stereo (attualmente reperibile su YouTube). Un esperimento ambizioso, proprio nel cuore dell’era MTV. Inoltre, in un decennio spesso frivolo e consumista, l’album tocca temi sociali contingenti, quali la tensione razziale, la crisi della mascolinità, la disoccupazione e la disperazione urbana, specie nei quartieri dell’ovest di Londra: “non opinioni, ma fatti”, dice, su problemi concreti e attuali – un impegno politico autentico in chiave rock. E abbandona il collaudato muro del suono degli Who per un sound “anni ’80” espanso: fiati, cori, percussioni multiple (la band Deep End), pur mantenendo scrittura ed energia fortemente rock.

White City è un album esaltante perché racconta storie vere, usa la musica con intensità cinematica e sperimenta in modo magistrale, uscendo dai cliché e plasmando un’esperienza artistica totale.

 

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Mo Bart, al secolo Moreno Bartoli (classe 1974, nato a Forlì e fuggito a ogni latitudine), è un appassionato di cinema da sempre, anche se ha impiegato anni a capire che non bastava guardare film: bisognava anche scriverne, e possibilmente con passione, disordine e una certa dose di incoscienza. Ha firmato articoli, recensioni e saggi sotto svariati nomi, trasformando l’eteronimia in una forma di critica militante: tra i suoi alter ego più noti (e meno riconosciuti), si citano l’algido Marcello B. e il provocatorio Filo Lampa. Con Mo Bart, invece, si concede una voce più personale e scanzonata, in equilibrio tra ironia e nostalgia. Ha scritto di cinema italiano di serie B, di registi dimenticati, di colonne sonore e doppiaggi perduti, sempre con un occhio affettuosamente critico e una predilezione per i “film sbagliati nel modo giusto”. Collabora con riviste indipendenti e progetti editoriali laterali. Non ha mai vinto un premio, ma conserva ogni biglietto del cinema visto in sala dal 1987.

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