William Wall – Alla collezione egizia

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Le guardie sono in sciopero, ma hanno accettato di aprire una porta a ogni ora. Alla fine di quell’ora il piano viene chiuso e tutti i visitatori devono scendere per le scale. Voglio vedere la collezione che viene da Pompei ed Ercolano, ma finisco nel seminterrato a guardare i defunti egizi e i loro ornamenti. Tutti gli altri fanno fotografie nonostante i cartelli, ma io non voglio ricordare niente e così guardo altrove.

Ma ogni tanto l’imbarazzo mi fa voltare. Non posso continuare ad ammirare il modo in cui la luce del sole passa attraverso le persiane o dire quanto faccia fresco dopo il caldo all’esterno. È agosto a Napoli, e c’è in corso un’ondata di calore, il che significa che debbono esserci quarantatré o quarantaquattro gradi, e l’aria condizionata sul bus non funzionava bene e un tale stava fumando. Oh mio Dio, guarda, dice qualcuno, questa è una mano. Guardo perché non guardare attirerebbe l’attenzione su di me, e in una teca di vetro la mano di un bambino spunta fuori dal bendaggio marrone che l’avvolgeva. Penso che le mummie siano disgustose, dice la mia amica Marie. Io no. Penso che siano troppo tristi per essere guardate. Tutti gli altri si chiedono di che cosa siano morti, e di che colore avessero capelli e occhi, e se siano stati sacrificati o che altro. E proprio in questo momento, in qualche villaggio in Inghilterra, le persone stanno guardando delle tombe e si stanno chiedendo la stessa cosa su altre bambine, la gente corre a guardare, così da creare profitto anche sulle persone che muoiono. Penso che questo sia disgustoso. Penso che finiremo tutti all’inferno, qualunque cosa sia l’inferno. Forse questa bambina, tutta avvolta dalle bende e mezza marcia, che giace in una teca di vetro, è all’inferno. Forse è questo che c’è in serbo per le persone che guardano i morti e fanno finta di essere tristi per loro, quando in realtà non sono affatto tristi. Ho detto a Marie, esco di qui, e lei ha detto, non puoi, devi scendere dalle scale e le scale sono chiuse per via dello sciopero fino al termine dell’ora. Cerco di aprire le porte: sono chiuse. Oh Gesù. Siamo tutti bloccati nel seminterrato. Se ci fosse un incendio, Marie? Lo vedo come se stesse realmente accadendo – le sbarre alle finestre rosse come gli elementi di una stufetta elettrica, le persiane che vibrano, le vetrine che esplodono. C’è perfino uno che fuma. Probabilmente si sente al sicuro, perché le guardie sono in sciopero e nessuno ha il coraggio di dirgli di smettere, e siamo bloccati, così nessuno lo vedrà. Ha fumato per tutta la strada fin dall’autobus, anche se il cartello diceva che era vietato fumare e io non riuscivo a respirare. Ho detto a Marie che mi sarei sentita male, ma lei mi ha detto di farmi forza, cosa che riuscivo a malapena a fare, ma tornando non so come farò. Dovrò chiedere di sedermi davanti, vicino al guidatore, perché ha la finestra aperta. Le mummie sono imbalsamate e casualmente so che l’imbalsamazione implica l’uso di alcol, che brucia con una fiamma molto chiara, come la fiamma sulla parte superiore del budino di Natale. Mio padre l’accendeva e diceva sempre ‘che spreco, tutto questo buon whisky va in fumo’ e aveva l’abitudine di fingere di soffiare troppo presto in modo che il whisky intridesse il budino e mia madre si arrabbiasse. Lui è un contabile e non ama gli sprechi. In un’ora saremmo tutti bruciati per bene. Quel tale che fuma ha un accendino che fa scattare spesso con un click, e lo tira fuori di continuo; è d’argento o d’acciaio. A volte sento il click, ma non vedo la fiamma. Marie dice: guarda tutti questi giocattolini, piccoli uomini, insetti e animali, tutti perfetti. Pensa, tutti questi anni e vengono fuori dalla terra ancora in perfette condizioni. Chi avrebbe detto che potessero fare cose così piccole, tanto tempo fa. Perfetto è la sua parola preferita. L’hotel era perfetto, lo è un tale a cui ha lasciato il cuore, e c’è scritto su una T-shirt che ha comprato. Forse i giocattoli appartenevano alla bambina, dice. Marie legge le descrizioni solo a metà, e così non sa che tutti i giocattoli sono stati ritrovati in luoghi diversi e in tempi diversi, ma non glielo dico. So per esperienza che è una perdita di tempo dirle alcunché. L’inglese delle scritte è strano e alcuni testi sono solo in italiano. Si vede che quelli inglesi sono tradotti. Che lingua parlava la bambina? Non credo che sia la stessa che si parla adesso laggiù. Penso che anche la sua lingua sia morta. Penso che sia tristissimo. Anche se volessi confortarla e trovare un momento di quiete in cui tutti gli altri guardano i gioielli non potrei farlo, perché le parole giuste non esistono più da nessuna parte, non è nemmeno una lingua che potrei studiare e di cui procurarmi un frasario, come quello italiano che ho. Ma poi mi viene in mente che anche i neonati rispondono al tono della voce. Dove l’ho sentito dire? In un programma radiofonico, suppongo, dove sento di tutto, in qualche talk show. Quando l’avevo sentito mi aveva sconvolto a causa di quello che facevo in quel momento; come se avessi avuto un’altra scelta. Se fossi riuscita a rendere abbastanza morbida la mia voce, lei avrebbe capito che volevo farla sentire felice. Dopo qualche migliaio di anni potrei essere io la prima voce che sente, e a cui importa di lei. Perché sua madre le ha detto addio e lei è stata messa in quella tomba fredda e buia. Perfino in Egitto le tombe devono essere fredde. E le persone che l’hanno trovata saranno state eccitate, gli archeologi. Ma l’avranno chiamata un reperto, non una bambina. Non credo che nessuno abbia pensato a come si sia sentita. Allora aspetto un po’ fino a quando la folla non passa oltre e Marie dice, non vieni? E io dico no, non mi interessa. Resto qui. Lei mi lancia uno sguardo. Non è stato un successo, venire con Marie, e non lo farò più. Lei è interessata solo a una cosa. Così va avanti con gli altri e sento le loro voci fare ‘ohhh’ e ‘aah’ per l’oro e quant’altro. Posso immaginare com’è. E io rimango a parlare con la bambina. Dopo circa tre minuti sto piangendo. Ho una sorellina, proprio come te, dico. Proprio come te. E mi manca. Non so che cosa farò perché non posso tornare indietro. Ho detto loro che non sarei mai tornata indietro, dopo quello che hanno detto. Mio padre mi scrive, ma mia madre non lo fa. Lei è molto dura. Esci da questa porta, ragazza mia, e qui non rimetterai più piede, ha detto. Mia madre. Sarai morta per me, ha detto. E quindi lo sono. Sta iniziando a far freddo qui sotto, come se l’aria condizionata fosse stata abbassata troppo. Voglio mettere la mano oltre il vetro e coprire la sua piccola mano, che è l’unica parte che si può vedere, tranne per le dita di un piede. È come se si fosse addormentata e avesse tirato su le coperte, si fosse voltata sulla schiena e la sua mano sbucasse fuori, così come le dita dei piedi. Ma è la mano che voglio coprire. Le mani dicono tutto. È la mano che reca la linea della vita e mostra con ramificazioni e diramazioni le cose che accadranno, anche se preferiremmo non sapere che il futuro è tutto lì se sapessimo come leggerlo. Quando vogliamo aiutare qualcuno diciamo che gli diamo una mano, e quando stiamo per liberarci di qualcosa diciamo che è tutto nelle mani di qualcuno, è fuori dalle mie mani adesso. Me ne lavo le mani. E si può dire che lavoro faccia una persona dalle sue mani: le mie sono sempre rosse e screpolate perché sono allergica ai guanti di gomma che ci fanno indossare in fabbrica. Dobbiamo anche indossare cappelli di plastica e mascherine da chirurgo, e camici come se operassimo sulle persone invece che sui computer: come se tutti i chip e le schede che mettiamo insieme fossero parti di persone che si svegliano dopo un lungo sonno e le loro vite fossero migliorate e forse saranno in grado di camminare di nuovo e non hanno alcun dolore. Mio padre è in attesa di un intervento all’anca, ma queste cose devono essere fatte a tempo, dice il suo medico, e lui dovrà aspettare ancora a lungo. Tutto quello che facciamo è assemblare modem e Marie è l’unica che può permettersi un computer, e nessuna di noi ragazze sa neppure come funzionano. Allora che cosa devo fare, chiedo alla bambina. Le tolgo i capelli dal viso, come faccio con mia sorella. Con l’occhio della mente vedo noi due: me seduta accanto al suo letto, che non è questa fredda teca ma un letto normale, come l’abbiamo a casa, e le sposto i capelli dagli occhi. Cosa ci posso fare: non li rivedrò più? Poi Marie ritorna. Gesù santo, questa sarà una vacanza di m…, dice. Gesù, ma guarda che stai facendo! Non sono fatti tuoi, dico. Non è un granché di vacanza, no? Hai prenotato tu, dice. Volevi un viaggio culturale, quando avremmo potuto essere a Creta o alle Canarie. Gesù piangeva. Così le dico un paio di cose. Esco da quella porta, dico, non appena scocca l’ora, e se non ti vedo più sarò felice lo stesso. E chiederò al supervisore di cambiarmi la postazione quando torno. Se non parlerò mai più con te andrà bene ugualmente. E se vuoi saperlo questa bambina mi ricorda mia sorella. Gesù santo, dice Marie. Come può ricordarti di tua sorella. Mi fai orrore. Lei guarda la teca di vetro e io so che tutto quello che vede è qualcosa di morto. No, qualcosa che non è mai stato vivo, come uno dei giocattoli o le statue o come se la bambina fosse nata morta invece di arrivare a dieci o undici anni. Quando una bambina muore prima della nascita non è mai stata viva, dico. Quindi non può essere morta. È il significato del limbo. Ora sei fuori di testa completamente, dice Marie, di cosa stai parlando adesso, per Dio? Tu sei il tipo di persona che legge tutte le storie dell’orrore, dico, come di quelle due ragazzine in Inghilterra. Ti piace. Mi fissa. Di cosa stai parlando? Che ragazze? Ma sento le guardie aprire la porta e arriva una folata di aria calda e ci guardano come se avessero appena scoperto che siamo qui. È una salita, dico. Bisogna salire, dico. Bisogna salire per le scale. Adesso siete nel seminterrato. Se si vuole uscire bisogna salire. Io semplicemente mi allontano.

Traduzione di Silvia Accorrà

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William Wall è un romanziere irlandese, scrittore di racconti e poeta. Il suo lavoro è stato tradotto in diverse lingue; traduce dall’Italiano. Il suo romanzo This Is The Country (Questo è il paese) si è qualificato per il Man Booker Prize 2005 e si è classificato per il Young Mind Prize (Premio Giovane Mente) e per l’Irish Book Awards. I suoi racconti e le sue poesie hanno vinto numerosi premi, tra cui The Virginia Faulkner Award 2011. Il suo libro più recente - Ghost Estate, un volume di poesie - è stato tradotto in italiano come Le Notizie Sono (Moby Dick Editore). Ulteriori informazioni dal suo sito: www.williamwall.net 'Wall, che è anche un poeta, scrive una prosa così carica - allo stesso tempo lirica e sincopata - che è come se Kavafis avesse deciso di scrivere su una violenta famiglia irlandese.' The New Yorker 'Il tocco di Wall nella caratterizzazione dei personaggi è leggero e agile: molti descrivono chiaramente se stessi con poche righe di dialogo.' The Guardian 'E' un tale scrittore - lirico e crudele e audace e con metafore notevolissime'. Kate Atkinson. Fotografia di Herry Moore

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