Roberto Cupo – Stelle cadenti

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2045

Il camion accostò nella notte fonda e Riccardo scese, scavalcando il cassone al volo. Poggiò male la pianta del piede e finì su una cunetta: il dolore si infilzo fin dentro il cervello, mentre i due rimasti in cabina gli dissero, ridendo, quanto era coglione.
Ringraziò con le galanterie del caso e, zoppicando, s’inoltrò lungo il sentiero nella boscaglia che  portava a casa sua. Il raschiare del brecciame sotto le pesanti scarpe da lavoro era l’unico rumore nel chiarore della notte d’agosto, a parte qualche rara cicala che proprio non riusciva a prender sonno.
Forse per il buio, forse per stanchezza, quel groviglio di cespi e arbusti che tracciavano la via li vedeva come da bambino, con la sensazione che tutta la campagna fosse stata in pensiero per lui assente ormai da una settimana. Nonostante la calura, il cielo sembrava quello di un presepe: blu, vasto, surrealmente immobile.
Barcollando per il sonno e per la fatica, decise ugualmente di fumarsi un’ultima sigaretta contemplando le stelle cadenti. Che diavolo, era la notte di San Lorenzo!
Arrivato davanti casa, lasciò cadere lo zaino a terra, prese la vecchia scala, la impalò di fronte alla veranda e salì sul tetto. Erano almeno quindici anni che non lo faceva; sotto i piedi le tegole scricchiolavano. Giunto in cima, si sdraiò, appoggiando la testa fra due file di tegole.
Cominciò a sentire dolori dappertutto. Il lavoro poteva nobilitare chicchessia; a lui faceva solo venire mal di schiena. Nella tasca posteriore il portafogli ingombro di contanti gli premeva sulla natica; li tirò fuori e li ricontò: abbastanza per pagarsi i debiti e tirare il fiato per un po’. Li rimise a posto, si accese una sigaretta e, a testa in su, rimase a fissare il cielo: quante volte s’era fatto spiegare come funzionavano le stelle, ma non aveva mai capito niente. Andava bene anche così. Sia lui che il cielo sarebbero sopravvissuti lo stesso.
Un paio di stelle cadenti attraversò la volta celeste e, come al solito, si trovò impreparato sul desiderio da esprimere. Sti cazzi! Addosso sentiva l’umido della maglietta che al sole s’inzuppava e s’asciugava mille volte al giorno: di sudore, di panini con la mortadella, di Sax rosse e di birroni, bevuti per ingannare il sonno, della stanchezza e delle vertigini di quando si sale sulle impalcature.
Stava raccogliendo le forze per rimettersi in piedi e scendere quando, da sotto, udì il portone aprirsi e un ciabattare giù per le scale all’ingresso. Si sollevò sulla schiena e, nel cortile, vide una lunga vestaglia bianca con dentro sua madre. Nonostante la notte, c’era abbastanza luce per scorgere i suoi occhi, gonfi di paura e di confusione. I pochi capelli rimasti erano lunghi, arruffati e rossi. Era un misto tra la madonna e il suo fantasma. Dopo un po’ la donna  rivolse lo sguardo al tetto e, accorgendosi del figlio, trasalì.
«Posso salire anch’io?».
«E sali», rispose lui.
La madre s’arrampicò con passo incerto sulla scala mentre lui, da sopra, gliela reggeva. Una volta approdata, lo strinsè tra le braccia e gli diede un bacio sulla guancia.
«Ma sei tu veramente, o ti sto immaginando?».
«Sono io mamma, sono io», e le prese le mani.
«Da quanto sei tornato? Hai mangiato?».
«Sì, sì. Sono appena tornato. Ho già mangiato».
«Che fai quassù?».
«Sono venuto a vedere le stelle».
Lei accennò un sorriso vago, continuando a fissare in basso, nel vuoto. «Voglio vederle pure io».
Si stesero insieme sul tetto. Lei lo abbracciava forte, tremando. E guardando tutt’altro che le stelle.
«Come sei stata in questi giorni?».
«Come devo stare, non mi vedi? Trenta al tomolo».
«Le medicine le hai prese?».
«Sì. Non mi fanno niente. Acqua fresca».
«Non è vero. A te sembra, ma poi stai meglio quando le prendi», la ammonì, consapevole di mentire.
«Ricca’… io sono stanca di vivere, di prendere medicine, di stare meglio e di stare peggio. Se morissi sarebbe meglio per tutti. Sono solo un peso. Lo so che vi vergognate di me; credi che non me ne accorga? Ma mi rendo conto che avete ragione. Ormai non sono più capace di stare in mezzo alla gente, di fare un discorso sensato. Sono quattro giorni che non dormo, non mangio, non mi lavo. Dimmi tu se è vita, questa».
Nel suo tono di voce c’erano una rassegnazione e una disperazione lucide, diverse dalle manie suicide dei primi tempi.
«Spero solo di non svegliarmi più», aggiunse.
Qualche anno prima quelle parole gli avrebbero fatto scoppiare il cuore, ma ora Riccardo aveva come un muro, una cinta che gli impediva di soffrire, di pensare, di schiantare i cellulari contro le pareti.
Rimase a fissare la notte, con le labbra serrate e la testa di sua madre sul petto. Troppe volte le avevano detto che non era così, che le volevano bene e che lei era il vero pilastro della famiglia. Troppe volte l’avevano imbottita di iniezioni di speranza, illudendola che prima o poi quel momento sarebbe passato. Ma troppi periodi erano trascorsi e quella tempesta nera era rimasta nella sua mente, ininterrotta e soffocante. Alleviarla a parole aumentava soltanto la disperazione e il senso d’impotenza in chi ci provava.
«Ho freddo», disse lei con voce roca.
Si alzarono e tornarono giù. Lei scese per prima, mentre Riccardo con una mano teneva la scala e con l’altra si reggeva la schiena.
Entrarono in casa. Le finestre erano chiuse, le ante sigillate; l’afa era insopportabile e lui cominciò immediatamente a sudare. Stava per accendere la luce, ma la madre gli chiese di non farlo.  La accompagnò a tentoni in camera da letto; già dal corridoio sentiva il padre russare. Nel buio della stanza intravide le sue cosce nude, le mutande e l’enorme pancia, avvolta in una canottiera bianca, che si muoveva come un mantice. Pensò che, passando tutte le notti della propria vita con un uomo del genere, non c’era da meravigliarsi se poi arrivavano l’insonnia, la depressione, la voglia di morire.
La mise a letto, le accarezzò i capelli e le baciò la fronte, augurandole la buona notte.
Andò in cucina, aprì il frigo. Era vuoto. Non importava, tanto la fame gli era passata.
Attraversò di nuovo il corridoio e sbirciò nella camera dei fratelli. Dormivano, ma neppure il sonno stendeva le pieghe dei loro visi esausti.
In quella casa erano in cinque, ed erano uno più solo dell’altro.
Eppure un tempo non era stato così: c’erano state risate, gioia e piatti abbondanti. Che cosa era stato a portare via tutto? Che cosa li aveva fregati?
Entrò in bagno e, prima di spogliarsi, si accese quella che doveva essere la trentesima sigaretta dalle cinque del giorno prima. Aprì la finestra e tornò a osservare ancora quel cielo limpido, glorioso e strafottente del buio sulla Terra. Erano passate le quattro. Nella testa rimbombava, spietato e implacabile, il russare del padre e, negli intervalli, i singhiozzi del pianto di sua madre, mal soffocati dal lenzuolo sulla bocca. L’alba era ancora lontana, ma sapeva che dormire non sarebbe stato facile. Con la coda dell’occhio scorse un’altra stella cadente: desiderò che si schiantasse sulla Terra o che, sbattendo contro un’altra stella, mandasse a fuoco tutto quel cielo di merda.

FINE

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Roberto Cupo nasce e cresce nel salernitano una trentina d'anni fa. Un'infanzia tranquilla e la solitudine di lunghi pomeriggi in campagna tra nuvole e fili d'erba ne fanno un adolescente per niente pratico ma con una buona fantasia. A sedici anni comincia la sua collaborazione con una radio locale dove gli si apre il mondo della musica e della lettura. Ma è tra i banchi di scuola che, con un amico, scopre e condivide gli autori che gli cambiano la vita; in quegli anni i primi tentativi -abbastanza penosi- di scrittura narrativa. Terminate le superiori si trasferisce a Roma, insieme al solito amico. Buone letture, tante sbronze e una catastrofica carriera universitaria mai portata a termine. Tra le periferie romane vive da vicino le realtà incontrate nei suoi libri preferiti, fatte di gente in perenne crisi economica, morale e umana. Nel 2010 entra a far parte della redazione del quotidiano on-line ildirigibile.eu e vi rimane fino alla chiusura (per mancanza di fondi) nel 2012. Successivamente ha collaborato con diverse radio locali della Capitale. Inkroci è la sua prima esperienza come autore di racconti. E ne è contento.

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