Stefano Morzenti – L’ora delle streghe

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«Sei sicura d’aver pronunciato per bene l’incantesimo?».
Monegonda sollevò il naso a becco dalle pagine dell’antico grimorio e fissò la sorella con occhi infossati. «Parola per parola!».
Sulle assi sconnesse del pavimento, incrostate di muffa e divorate dai tarli, il pentacolo era tutto sghembo e sbavato. Le candele di cerume d’orso scoppiettavano irrequiete e riempivano la capanna di un leggero odore di selvatico e di un vago sentore di pelo bruciato.
«Inconcepibile» borbottò Abelarda zoppicando curva verso il caminetto sbilenco. «Grulla come sei, avrai sicuramente sbagliato qualcosa».
Monegonda sbatté il libro sul tavolaccio annerito e una nuvola di polvere si sollevò nell’aria. «Per me l’è solo che codesto affare vale ʼna sega». Un piccolo millepiedi zampettò via e sparì dietro una fila di ampolle panciute.
Ad Abelarda mancò il fiato e la sua faccia grinzosa si fece rossa e tonda come un melograno. «Maremma impestata!» sbottò sputacchiando tra le gengive sdentate. «Ricordati che il grimorio della bisnonna Leonilde l’è un formidabile compendio di magia nera». Puntò un dito bitorzoluto contro la sorella. «E che tutte le streghe del Granducato ce lo invidiano».
Monegonda si strinse nello scialle tarmato. «E mi dici perché sul retro della pagina ʼun c’è un altro incantesimo ma la ricetta per una torta di pere?».
«Bischera! Ma ti rendi conto di quanto costa la cartapecora? La bisnonna l’era solo una donna parsimoniosa». Con l’attizzatoio ravvivò le braci. «Piuttosto, sei sicura che il sangue di capra era abbastanza fresco?».
«Freschissimo».
«Hai intrecciato bene la ghirlanda di belladonna con le penne di gallina?».
Monegonda annuì grattandosi una tetta floscia con aria distratta.
«E di chi sono le lacrime di vergine?».
L’altra sorrise con gli unici tre denti che aveva. «Ho fatto piangere la figlia del mugnaio».
Abelarda sputò per terra. «Ma te c’hai la ribollita nel cervello?» gracchiò mordendosi le nocche. «Sicuro che quella bucaiola si sarà rotolata nel fieno con metà dei ragazzi da qui all’Arno». Si asciugò un filo di bava che le pendeva dal labbro tremolante. «Non potevi andare da quel citrullo del figlio del porcaro? Quello non ha visto le cosce d’una femmina manco quando l’è nato».
Monegonda sollevò un sopracciglio. «Un maschio?».
«E che, siamo nel medioevo?». Buttò nel camino una manciata di foglie secche, che presero fuoco con uno scoppiettio. Un odore pungente si sparse per la stanza. «È il millesettecento! Ormai c’è la parità dei sessi».
Dalla finestrella accanto alla porta giunse un raspare sommesso e, dietro il vetro lercio e scheggiato, comparve il muso di un gatto nero.
Abelarda sbuffò. «Sarà la gatta dei vicini. Dalle una ramazzata sulla testa e mandala via».
«Ma sei rimbambita? Quali vicini, che per colpa tua viviamo in mezzo alla palude?».
La finestra cedette con uno schianto e una folata di aria mefitica spense le candele. La gatta balzò sul pavimento, si strusciò contro uno sgabello e andò ad accucciarsi al centro del pentacolo. Era spelacchiata, le mancava un orecchio e aveva gli occhi di colori diversi: uno giallo vomito e uno verde marcio.
Monegonda afferrò la scopa, ma la sorella la fermò con una mano scheletrica. «Spetta!». Con tutte le giunture che scricchiolavano, s’inginocchiò di fronte alla bestia per osservarla meglio. «Bada bene, è proprio come dice il grimorio!». Allungò la mano ossuta e le grattò il mento. «Una creatura d’ombra, più nera di una latrina di taverna e con occhi rubati a due cadaveri diversi. È il demone patrono della nostra famiglia, è la Vedova delle anime perdute!».
Monegonda sollevò di nuovo il sopracciglio irsuto. «Il nostro demone è un gatto?».
Abelarda batté le mani. «Finalmente, grazie ai suoi oscuri poteri, ci vendicheremo di quei baciapile che ci hanno bandito dal villaggio».
Monegonda alzò gli occhi al soffitto pieno di spifferi. «Veramente il prete ti aveva solo chiesto di lavarti almeno una volta al mese».
«L’è la stessa cosa. Se il primo grullo che passa pensa di darmi ordini, mi può baciare il culo».
L’altra si grattò la verruca sul naso. «Sarà come dici tu… Comunque la tua Vedova si sta leccando le palle».
«Cosa?». Con ben poca grazia la gatta aveva sollevato la zampa mettendo in mostra due marroni da far invidia a un cinghiale. «Ehm… Tu però non essere così antiquata, sorella». Abelarda si alzò a fatica e coronò lo sforzo con una sonora scoreggia. «Siamo alle porte di una grande rivoluzione sessuale, e oggidì un demone dell’inferno può possedere il corpo che più gli garba. Se vuole un paio di palle pelose, così sia».
Monegonda si grattò la testa e una ciocca di capelli grigi e unti le rimase in mano. «Di questo passo chissà dove andremo a finire…».
«So dove finirai tu, se non la smetti di fare la piantagrane!». Abelarda posò le chiappe ossute su uno sgabello e incrociò le braccia. «Almeno renditi utile, non vedi che è affamata? Vai a mungere la capra».
«E secondo te dove ho preso il sangue fresco?».
La sorella strabuzzò gli occhi. «Maremma maiala, m’hai scannato la Dorotea? Te sei tocca peggio del povero babbo». Si passò una mano sulla faccia. «Dalle almeno un po’ del piccione ch’è avanzato, che io ʼntanto scateno i poteri dell’inferno». Col dito iniziò, meditabonda, ad arricciarsi i peli sul mento. «Ecco, per prima cosa noi gli si chiede di far avvizzire tutto il grano».
Monegonda infilò il mestolo nel grosso pentolone coperto di fuliggine. «Te guarda che siamo a febbraio, grulla!».
«E allora gli si tramuta il vino in aceto».
L’altra rovesciò una cucchiaiata di stufato grumoso in una ciotola. «O che tu vuoi far contente tutte le mogli?».
«Va bene, gli si fa cascare tutte le lingue, così nessuno c’ha più da parlare».
«Sicché poi tutti i mariti fanno festa».
Abelarda poggiò i gomiti sul tavolo. «Però ʼun fa’ sempre la disfattista, su». Fece una smorfia. «Piuttosto, dov’è andato il nostro demone patrono?».
Monegonda annusò il contenuto della scodella e arricciò il naso. «Credo stia facendo una bella cacata sul tuo pagliericcio».
Abelarda si voltò di scatto. La posizione era inconfondibile. «Argh, bischero d’un gatto!». Si sfilò la ciabatta di pelo di nutria e la scagliò con mirabile precisione. Colpì la bestia proprio sul naso. «Ben ti sta!».
L’unico orecchio del felino si appiattì, la schiena s’incurvò con un tremito e dalla gola sgorgò un ringhio da far sbiancare i peli del culo. La pelliccia si rizzò come fosse una selva d’aghi di ferro e le zampe si allungarono con uno scricchiolio sinistro. Tutto il corpo iniziò a crescere e l’aria divenne calda, quasi soffocante.
Monegonda rovesciò la ciotola nel calderone. «Direi che il piccione non gli garba più».
Dalle zampe spuntarono artigli neri e ricurvi, e gli occhi si spalancarono, rossi come braci incandescenti. Allargò le fauci, mostrando tre file di zanne aguzze. Soffiò, e lo spostamento d’aria fece tintinnare le bottiglie sugli scaffali. La grossa coda frustava l’aria con un sibilo tagliente.
«Mone». Abelarda era bianca come un cencio. «Pre… prendi un po’ la ramazza».
Un ringhio rauco e la bestia svanì in un vortice di fiamme infernali, lasciando dietro di sé solo puzza di zolfo, paglia carbonizzata e un colossale mucchio di merda fumante.
Abelarda cascò dallo sgabello. «Mortesecca, che paura». Soffiò via un ciuffo di capelli stopposi dalla faccia. «Però vedi che c’avevo ragione io?».
Monegonda alzò le spalle. «Sì, sì, brava, ma adesso la Vedova mi pare un pelino ingrullita. Alla vendetta ci si ripensa questo autunno. Che dici?».
«Mi sembra saggio, sorella». A fatica si rimise seduta sullo sgabello traballante. «Tanto vale che adesso si faccia una bella torta di pere. Vai a pigliare due uova nel pollaio».
Monegonda si grattò il naso. «T’ho mai detto che è davvero difficile spennare delle galline vive?».

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