Francesca Romano – Proprietà privata

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«Guarda quel deficiente: sta parcheggiando ancora al mio posto! Ma è cieco? Non legge l’epigrafe sulla strada? Quello è lo spazio per il mio carro funebre. Ho anche affisso un cartello al palo: Proprietà privata. Ora vado a cantargliene quattro!».
Raimondo era l’anziano proprietario delle pompe funebri “Fratelli Gismondi: Onorati di onorarvi”, in via Budelli a Brescia. Se ne stava impettito sui gradini che delimitavano la vetrata del negozio, con la faccia paonazza per la rabbia. Alto poco più di un metro e sessanta, ostentava una grossa pancia strizzata in una camicia bianca. Con le guance rubiconde solcate da venuzze rosse, sembrava più il ritratto di un oste che di un becchino.
Quando s’innervosiva, il rossore si irradiava dalla base del collo propagandosi fino alla base dell’unico capello, che fissava accuratamente con il gel in un improbabile riporto.
«Ora lo ribalto! L’ho già avvisato mille volte. La sua carriola scassata può parcheggiarla nel piazzale».
Una voce fievole e roca provenne dall’interno del negozio: «Ma cosa pensi di fare? Sei un incapace, in grado solo di sbraitare: quando devi passare ai fatti, diventi un coniglio. Rigagli la macchina, se ne hai il coraggio!».
Raimondo si spostò leggermente, specchiandosi nella vetrata scura, adornata con immagini di croci dorate e scarlatte. «Cosa dici, Adelmo? La tua voce è così bassa che pare venire dall’oltretomba. Non riesco a sentirti: raggiungimi qui fuori».
«Non ci penso nemmeno. Lo sai che non amo la luce del sole. E per cosa, poi? Per guardarti mentre ti rendi ridicolo davanti a tutti? La scritta che hai affisso al palo è finta come il tuo riporto. Hai anche disegnato il tuo volto sul divieto di sosta. Sei solo in grado di mugugnare, tutto fumo e niente arrosto».
«Zitto! Sei solo un secchione dedito ai conti e ai numeri. Quando eravamo bambini, mentre io giocavo in giardino scavando buche, tu restavi rintanato in casa a leggere e a studiare».
Dal negozio provenne una risata di scherno: «Ti scavavi già la fossa da solo. Mamma era orgogliosa di me e dei miei voti. Io mi sono diplomato in ragioneria, tu invece sei uscito per il rotto della cuffia dalla scuola media. Se non ci fossi stato io, l’attività di famiglia sarebbe fallita. Chi ha curato i conti in tutti questi anni? Chi ha gestito l’amministrazione? Tu sei solo un morto che cammina».
Raimondo scese i tre gradini che dividevano il negozio dal marciapiede e, dopo essersi aggiustato la cravatta con le mani sudaticce, iniziò a camminare indispettito lungo il selciato, con le braccia piegate dietro la schiena.
Il cielo stava imbrunendo, e le poche persone che si erano recate alla tabaccheria per giocare con le macchinette o al lotto si stavano dileguando verso casa. Sotto il gazebo del bar, i soliti vicini di casa, radunati per l’aperitivo, scherzavano con Karina, la bella barista russa, che sgambettava tra i tavoli mostrando le curve.
A breve i lampioni avrebbero illuminato le pareti scrostate dei palazzi circostanti e la pizzeria avrebbe iniziato a sfornare pizze da asporto.
«Raimondo, smettila di fare il cretino. Devi occuparti del lavoro. Trova qualche morto: le nostre bare sono vuote. Pensi solo a ubriacarti e a spogliare con gli occhi tutte le passanti. Ho visto sai, come scrutavi la tua vicina di casa l’altro giorno. È troppo giovane per te. Perché invece non provi a frequentare qualche vecchia? Almeno forniresti materiale utile per incrementare l’attività. Sei l’unico becchino senza clienti».
Raimondo smise di camminare avanti indietro lungo il marciapiede, si sistemò con un gesto l’abito grigio topo ed entrò nel negozio con intenzioni bellicose. Disposte con ordine maniacale, si trovavano alcune bare perfettamente parallele tra loro. La scelta era limitata, ma c’era comunque una discreta varietà di modelli. Alcune erano di legno pregiato con interni di seta, altre più scure e opache, con fodera sintetica. Corone di fiori finti erano sparse un po’ ovunque e  tendoni viola cardinale adornavano le finestre. Adelmo, con i capelli impomatati e l’abito di sartoria, stava alla solita postazione con gli occhiali appoggiati sul naso aquilino e il libro contabile tra le mani. Con un gesto di stizza Raimondo scostò i tendoni facendo trapelare la fievole luce. Il fratello amava la penombra, e avrebbe sicuramente accolto quel gesto come una sfida.
Gonfiando il petto come un pavone, si diresse verso Adelmo: «Devi smetterla di mortificarmi. Tu pensa ai conti, che alle bare e ai morti ci bado io. Mi ha appena telefonato nostro cugino Gennaro, che è infermiere alla Poliambulanza. Ci sono quattro o cinque anziani che stanno tirando le cuoia e, appena schiattano, mi avvisa.  È per questo che mi serve il parcheggio. Ora vado da quello stronzo che mi ruba sempre il posto e lo strozzo».
«Bè, almeno così avremmo un morto e qualche soldo!» esclamò Adelmo.
«Esci piuttosto a lustrarti gli occhi: Karina oggi è bellissima. Ha una minigonna inguinale e una maglia a fiori che lascia intravedere tutto».
«Guarda che quella non ti fila proprio. È possibile che in sessant’anni tu non sia riuscito a trovarti una donna? Sei uno sfigato. Guarda me: ho avuto una moglie, dei figli; certo, poi tutto è finito, ma almeno io ci ho provato».
«È che non ho trovato la donna giusta. Forse Karina…».
«Sei patetico! Quella non ti degna di uno sguardo. Ti sorride solo per farti ordinare un bicchiere in più: sei il suo migliore cliente. Ma ti sei guardato allo specchio?».
«Senti chi parla! Proprio tu, con quel viso pallido e quelle occhiaie che pari un morto» ribatté portandosi le mani grassocce alla pancia gonfia e ridendo di gusto.
«Lo sai che ho la pelle delicata e che sono allergico al sole. Tu non sai più cosa escogitare per adescare una donna: ti sei pure inventato il servizio telefax e fotocopiatrice. Secondo te, quale ragazza sana di mente entra a inviare un fax tra le bare?».
«Sono un imprenditore, e poi la speranza è l’ultima a morire. Ma ora basta, mi hai stufato. Vado a bermi un calice e poi ribalto il bifolco che mi ruba sempre il parcheggio».
Senza attendere una risposta Raimondo raggiunse il bar accanto. Karina lo accolse sorridendo, e gli servì il solito aperitivo. L’uomo si sedette al tavolino di ferro battuto sotto il gazebo del locale, e iniziò a sorseggiare con calma il pirlo con il campari.
«Ehi biondo!» urlò Raimondo appena adocchiò il ragazzo che gli aveva rubato il parcheggio. «Se ti becco ancora, ti caccio in una delle mie bare».
Il giovane, guardando divertito la barista, roteò l’indice vicino alla tempia.
Raimondo si alzò goffamente e stordito dall’alcol, non riuscì a raggiungere in tempo l’usurpatore che era già partito sgommando. Ansimante e deluso, Raimondo salutò Karina e tornò all’agenzia di pompe funebri.
Un forte effluvio di formaldeide lo colpì come un pugno in faccia: nonostante ci convivesse da anni, non si era mai abituato a quell’odore pungente.
«Puzzi come un barbone, e non sei in grado nemmeno di difenderti» lo sgridò Adelmo.
«Forse hai ragione. Sei sempre stato tu quello intelligente. Io sono solo un incapace. Sono stanco, non ho più voglia di discutere. Ho bisogno di riposarmi».
Si avvicinò al fratello e lo baciò sulla fronte gelida. «Domani ti darò ancora una ritoccatina, ti stai decomponendo di nuovo».
Gli occhi vitrei lo fissarono dall’interno della bara di mogano.
Adelmo era adagiato in una lussuosa cassa da morto, in posizione composta, con gli occhiali inforcati sul naso e un taccuino nero tra le mani gelate. «Stasera ti faccio compagnia». Raimondo chiuse il feretro accarezzandone il coperchio. Si levò la giacca e serrò con doppia mandata la porta.
Come un vecchio vampiro, si accomodò all’interno della cassa rivestita di broccato rosso.
«Buonanotte, fratellino», sussurrò alla salma.
Anche se a volte lo odiava, non poteva fare a meno di lui. Era sempre stato il migliore: la sua parte mancante, il suo mentore, la sua voce. Nessuno li avrebbe mai dovuti separare: nemmeno la morte.

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Francesca Romano è nata nel 1973 e vive a Brescia. Laureata in scienze dell’educazione, lavora ai Servizi Sociali del Comune di Brescia. Mamma di due ragazzi e sognatrice compulsiva, da sempre fantastica di vivere di parole d'inchiostro. Scrive da tempo immemore nei piccoli ritagli di tempo che la vita frenetica le permette. Ama creare favole e si diletta esprimendo il lato oscuro con racconti gialli/ thriller. Diversi suoi racconti, risultati finalisti e vincitori nei concorsi letterari, sono stati pubblicati in altrettante antologie, alcune delle quali presentate a Roma, Milano, Chiari, alle fiere dell’editoria. Ha pubblicato per Fabbri editori con racconti collaborativi. Il suo primo libro di favole, ”Siamo tutti un po’ orsi, un po’ porcospini”- casa editrice I Buoni Cugini Editori- è in pubblicazione e da fine marzo 2017 sarà presente in librerie a Brescia e in Lombardia, Piemonte, Sicilia oltre che sui maggiori siti di libri on line.