Lara Gregori – Un filo, Un sogno

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Si vedeva, bambino, seduto su una pietra accanto al fuoco mentre sua madre, con il velo alzato e le unghie nere di terra, impastava il pane raccontandogli la storia del kilim. «Avevo la tua età, Süleyman mio, quando ho cominciato.

Lavoravo alla fabbrica dell’Aga[1] Ahmed Bey, le mie piccole mani erano gioielli di fata. Ho tessuto meravigliosi tappeti, arazzi di seta che narravano la storia di Kawa e del tiranno Zuhak, ma nessun drappo è più bello del mio kilim. Ho raccolto dalla terra tutti i fili spezzati e ogni notte li intrecciavo di nuovo, ridandogli vita.

Ogni filo un sogno. Un sogno di tua madre Zare, figlio mio benedetto. Ogni filo un sogno. L’ho terminato la notte prima di essere sposa. E’ stato il mio regalo al tuo povero padre. E sarà tuo, Süleyman mio, il giorno che Zare sarà al giudizio di Allah il Grande. Tuoi saranno i sogni e i ricordi di Zare. Per l’eternità».

Concludeva sempre così, sua madre, guardandolo dritto negli occhi e dandogli una carezza leggera sui capelli arruffati di sporco e pidocchi. Era come una canzone, di nostalgia e di speranza. Era come i colori di un giorno d’estate, dall’alba al tramonto.

«Che fai lì imbambolato, Lungo? Svegliati! Non vedi che ormai fa sera?». Hayri scuoteva Süleyman, seduto sugli scalini della Grande Moschea di Istanbul.

Sprazzi d’arancio tingevano il bianco malato del cielo e il muezzin chiamava i fedeli all’ultima preghiera. I profumi del venditore di köfte[2] si mescolavano all’aria unta di benzina e alla fame scarna dei due ragazzi.

Süleyman, con gli occhi ancora persi nel ricordo, guardò Hayri, senza alzarsi: era ormai un mese che se ne erano andati dal villaggio e i vestiti logori gli erano diventati larghi, calzandogli addosso come grandi sacchi vuoti.

«Lungo, ma che hai? Ti senti male?». Hayri interrogava preoccupato il piglio vuoto di Süleyman.

«Pensavo a mia madre».

Hayri si lasciò cadere sui gradini, accanto all’amico. Vicino a loro, tre gabbie stracolme di piccoli uccelli variopinti cinguettavano disperatamente e senza sosta. Hayri le fissò a lungo, poi tolse dalla tasca l’incasso della giornata: 325 lire.

In quelle settimane non erano riusciti a vendere nemmeno un decimo degli uccelli che avevano catturato e ormai il tempo del ramadan era finito. La gente non faceva più “Azat Buzat”[3], non voleva più liberare un uccello per salvarsi al cospetto di Allah. Il paradiso non interessava più.

«Cosa possiamo fare, Lungo?».

«Non lo so, Hairy. Non lo so». La voce angosciata di Süleyman gemeva come un vecchio barroccio. Hairy non poteva sopportarlo: «Potremmo imbarcarci con i pescatori del Bosforo. Puliremo il pesce, laveremo il ponte, e i vestiti, e le reti.

Cucineremo per tutti. Mangeremo gli avanzi e con i soldi guadagnati andremo a riprendere il kilim. Ce la faremo, Lungo, vedrai. Ce la faremo!». Si era alzato di scatto, urlando concitato quell’immaginaria salvezza.

Süleyman rimase immobile e abbassò il viso, umiliato: «Non basterà. Mohamed il mercante venderà il kilim il prossimo mese. Erano questi i patti».

«Gli parleremo, Lungo. Gli diremo che la gente è diventata tutta giaurra. Che non ha comprato gli uccelli. Che noi siamo onesti.

Che gli ridaremo i suoi soldi e mille lire in più, ma non dovrà vendere il kilim. Capirà. Vedrai. E’ anche lui un uomo di villaggio. Capirà, vedrai».

Süleyman lo guardò con un sorriso cinico.

«Cosa ridi, dannato giaurro! Non c’è nulla da ridere! Ce la faremo, ti dico. Lavoreremo sulle navi. E Mohamed il mercante capirà. E’ un uomo, quello. Un vero uomo».

«Sta zitto, maledetto. Sta zitto!». Süleyman balzò in piedi all’improvviso, sbraitando e scuotendo l’amico con ferocia. «Non basterà, lo capisci? Non basterà!

Gli ho già parlato ieri. Mohamed il mercante venderà il kilim il prossimo mese. Nulla basterà, stupida bestia!». E lo spinse via, facendolo cadere.

Hairy restò a terra, immobile. «Zia Zare ne morrà». Pronunciò quelle parole in un soffio, come fossero una bestemmia che non si poteva evitare.

Li vedeva ogni notte, gli occhi di sua madre. Li vedeva ogni giorno, al risveglio. Quegli occhi. Gli occhi di quella notte. Aveva rubato il kilim insieme ad Hairy e l’aveva impegnato con Mohamed il mercante. Per trentamila lire.

Per comperare le reti e le gabbie per catturare gli uccelli. Per vendere l’Azat Buzat, le chiavi del Paradiso.

«Come hai potuto?». Gli occhi di sua madre erano lì, secchi e senza velo, davanti alla porta.

«Madre mia bella, non ti arrabbiare. E’ solo un prestito, il kilim è al sicuro. Guarda: le reti. Le gabbie. Farò tanti soldi a Istanbul, riprenderò il kilim. Avremo il denaro per tutto l’anno, vedrai. Diventeremo ricchi e pagheremo ogni debito.

Catturerò gli uccelli più belli e tutti correranno da tuo figlio il Lungo a comprarli». Süleyman si spiegava, agitando concitato braccia e mani.

«Come hai potuto?».

Non era la sua voce, erano i suoi occhi.

«Zare, bellissima madre, non essere ostinata. Non ho fatto nulla. Guarda, guarda tu stessa che belle reti, che belle gabbie. Guarda le mie mani, le mani di tuo figlio. Sono grandi e forti e agili. Gli uccelli voleranno da me».

Süleyman supplicava, ma sua madre non lo sentiva nemmeno. Soltanto lo guardava. Senza rabbia, senza odio. Smarrita. Süleyman ripeteva e ripeteva le stesse frasi, imbelliva le parole, la rassicurava, fiducioso che prima o poi avrebbe capito.

Ma gli occhi restavano lì, fissi e secchi. Smarriti.

Era mattina quando smise di guardarlo, calando il velo nero. Süleyman poteva giurare che gli occhi neri di sua madre avevano cambiato colore. Lui l’aveva visto. Ma non sapeva nominarlo. Non aveva mai conosciuto un colore così.

«Ho fame». La voce flebile di Hairy ruppe il silenzio della notte. La scalinata era deserta, ormai, e il venditore di köfte stava spegnendo le ultime braci. Nelle gabbie gli uccelli erano stremati e pigolavano appena.

Süleyman si alzò dai gradini della Grande Moschea.

«Compra il pane, Hairy. Mangeremo carne stasera».

Hairy guardò imbambolato l’amico.

Süleyman urlò: «Svegliati, figlio di un cane! Compra quel dannato pane!».

Hairy scappò via, tra le strade taciturne della città.

Süleyman aprì la prima gabbia.

Un filo, un sogno. Un filo, un sogno. Questo ripeteva Süleyman guardando a terra la testa mozzata dell’ultimo cardellino.

FINE

 


[1] Aga: capo, signore, padrone.

[2] Köfte: polpette di carne macinata cucinate alla brace e condite con cipolle, pomodori e salse piccanti

[3] Azat buzat: vola e sii libero

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