Heiko H. Caimi – Alice allo specchio

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Dopo aver fatto la doccia, Alice si mise davanti allo specchio, senza guardarci dentro. Era un grande specchio verticale che partiva dal pavimento e arrivava fin quasi al soffitto, a figura intera. Glielo aveva regalato sua madre.

Rimase a lungo a contemplarsi i piedi. Erano dei bei piedi, slanciati e con le dita diritte. Le piaceva quella parte del suo corpo. Le piaceva molto.

Dai piedi il suo sguardo corse alla bilancia. Spesso, quando saliva su quella gogna elettronica, rimaneva a fissarsi i piedi prima di avere il coraggio di spostare lo sguardo sulla scritta in caratteri digitali. La cifra che vi leggeva era sempre diversa da quella che avrebbe voluto vedere.

Non voleva pesarsi. Non voleva pesarsi più. La bilancia non diceva bugie, ma la verità le faceva troppo male.

Alzò timidamente lo sguardo verso lo specchio. Chiuse subito gli occhi. Quelle cosce gonfie erano uno spettacolo orribile. Non lo poteva tollerare. Perché sua madre le aveva regalato quello specchio?

Rimase a occhi chiusi per alcuni secondi. Forse era meglio che facesse mezzo giro su se stessa prima di riaprirli. Si era sempre sentita bene in bagno, prima che sua madre le regalasse lo specchio.

Non era del tutto a proprio agio in quell’appartamento, perché sembrava troppo angusto per potercisi muovere senza sbattere continuamente da qualche parte. Ma il bagno era il suo posto perfetto.

Era un bagno ampio, spazioso, nel quale si rifugiava quando voleva stare sola con sé stessa. Si concedeva lunghi bagni con i sali o docce interminabili. Le piaceva sentir scorrere l’acqua sul suo corpo mentre, a occhi chiusi, restava sotto il getto d’acqua. L’acqua era generosa, la accarezzava senza far caso alle sue forme; una carezza calda, quasi sensuale. Una carezza amorevole.

Riaprì gli occhi. Non riuscì a distogliere lo sguardo dal riflesso della propria pancia. Proprio non ne voleva sapere di diventare piatta. Per quante diete facesse rimaneva sempre tonda, un’escrescenza orribile che nemmeno con la palestra se n’era andata via.

Alzò lo sguardo ai seni. Non erano seni alti, sodi, come quelli che si vedevano nella pubblicità. I suoi tendevano irrimediabilmente verso il basso, tristi, come se fossero accasciati. Poteva mascherarli con i reggiseno, fingere che non fossero così cadenti, ma lo specchio di mamma le rivelava sempre la verità.

Portò gli occhi alle spalle. Anche loro non ne volevano sapere si starsene dritte, orgogliose: spiovevano come quelle di un manichino rotto, esili, senza vigore. Per quanti esercizi facesse, le sue spalle non si rialzavano.

Si guardò in viso. Non le dispiaceva il suo volto, ma nemmeno le piaceva del tutto. Era un volto carino, un po’ infantile, con gli occhi grandi, il naso regolare, le labbra carnose. Ma la piega dell’occhio e quella della bocca rassomigliavano terribilmente a quelli di sua madre, e anche le fossette che le bucavano le guance le aveva prese da lei.

Era come se lo sguardo sinistro della madre la fissasse da quello specchio, bucando i suoi occhi grandi e piegandosi nella sua espressione amara. Un’espressione che invadeva il volto di Alice tutte le volte che pensava a lei. Come ora.

E, quando si truccava, finiva per assomigliare ancora di più alla madre, come se, annullando la singolarità dei propri lineamenti, la somiglianza si facesse più marcata, neutralizzando quel poco di suo che le era rimasto.

Anche i boccoli biondi erano un’eredità di mamma. Erano belli, contornavano bene il suo viso, e lo facevano sembrare un po’ più magro. Ma non erano boccoli suoi: era come se si fosse fatta una parrucca strappando i capelli alla madre.

Chiuse gli occhi, li strizzò forte per impedirsi di guardare. Non fece il mezzo giro su se stessa, ma quando li riaprì la visione era offuscata da tanti puntini, come se una coltre di polvere si frapponesse tra lei e lo specchio.

Nuda com’era andò in cucina. Gocce d’acqua tracciarono il suo passaggio, come a impedire che perdesse la strada.

Aprì il cassetto delle posate. Estrasse il coltello della carne. Rimase a contemplarlo, in silenzio. Nella lama vedeva riflessi i propri occhi, nient’altro. Senza il viso intorno erano ancora di più gli occhi di sua madre. Gli occhi di sua madre che la scrutavano da dentro la lama.

Posò il coltello sul tavolo, si appoggiò a una sedia: le mancava il respiro. Era come se le mancasse un destino. Era venuta a vivere da sola appena aveva potuto permetterselo, per non dover più ascoltare tutti i giorni le critiche di sua madre, ma questo non aveva cambiato le cose: la sua vita non era cambiata, nessuna metamorfosi era venuta a salvarla. L’unica cosa che aveva ottenuto era di rimanere sola con le proprie angosce.

Riprese in mano il coltello. Avrebbe cominciato dalle cosce, poi sarebbe salita alla pancia. Poi i seni, zac, e poi…
Poi non avrebbe potuto togliersi tutte e due le spalle.

Lasciò cadere il coltello. La lama piombò a terra e le rimbalzò su un piede. Terrorizzata, guardò giù. Meno male, era rimbalzata dalla parte piatta, e aveva lasciato intatta l’unica cosa bella che aveva. Com’erano diversi i suoi piedi, così diversi da quelli di mamma. Chissà da chi li aveva presi. Nemmeno papà aveva dei piedi così.

E nemmeno suo fratello. Forse la nonna… Ma era morta troppo presto perché potesse ricordare i suoi piedi.

Si sorprese a pensare di chiedere a mamma da chi li avesse presi. Ma chissà che cosa le avrebbe risposto. Sicuramente niente di piacevole.

Continuò a guardarsi i piedi. Cominciò a provare un senso di estraneità per quella bellissima parte di sé. Non si accordavano con il resto del suo corpo, non si accordavano con nulla. O era il resto che non si accordava con loro?

Spostò la sedia e sedette. Accavallò le gambe, prese in mano un piede. Incominciò ad accarezzarlo: sentiva di volergli bene. Ma nello stesso tempo provava un senso di repulsione per quella parte di sé che sembrava non appartenerle, così diversa da tutte le altre, così in disarmonia con l’interezza del suo fisico.

Le apparteneva, ma era come se non fosse suo.
Smise di accarezzarsi. Guardò anche l’altro piede. Era proprio bello, il gemello di quello che aveva accarezzato.

Si rialzò. Andò alla porta, controllò che fosse chiusa. Staccò la cornetta dal telefono, assicurandosi che suonasse libero. Aprì la dispensa, ne tolse la bottiglia di whisky mezza piena e ne bevve un sorso, poi un altro, poi un altro ancora, fino a lasciarla vuota. La posò sul tavolo e riprese il coltello.

Sì, avrebbe cominciato proprio dai piedi. Li doveva rimuovere. Era l’unico modo per sentirsi veramente intera.
Con il coltello stretto in mano, si incamminò verso il bagno.

FINE

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Heiko H. Caimi, classe 1968, è scrittore, sceneggiatore, poeta e docente di scrittura narrativa. Ha collaborato come autore con gli editori Mondadori, Tranchida, Abrigliasciolta e altri. Ha insegnato presso la libreria Egea dell’Università Bocconi di Milano e diverse altre scuole, biblioteche e associazioni in Italia e in Svizzera. Dal 2013 è direttore editoriale della rivista di letterature Inkroci. È tra i fondatori e gli organizzatori della rassegna letteraria itinerante Libri in Movimento. ha collaborato con il notiziario "InPrimis" tenendo la rubrica "Pagine in un minuto" e con il blog della scrittrice Barbara Garlaschelli "Sdiario". Ha pubblicato il romanzo "I predestinati" (Prospero, 2019) e ha curato le antologie di racconti "Oltre il confine. Storie di migrazione" (Prospero, 2019), "Anch'io. Storie di donne al limite" (Prospero, 2021) e "Ci sedemmo dalla parte del torto" (Prospero, 2022, insieme a Viviana E. Gabrini). Svariati suoi racconti sono presenti in antologie, riviste e nel web.

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