Qualcuno dei miei nuovi vicini sta ascoltando i Talking Heads. Chi diavolo è che ascolta David Byrne & co. a palla alle dieci del mattino? E poi ‘sto giro di basso in Take me to the river è proprio arrapante.
Esco sul pianerottolo e la musica viene dalla stanza appena di fronte, quella gemella e speculare alla mia. Dev’essere la nuova vicina montenegrina, Luna. L’ho vista di sfuggita sulle scale, qualche giorno fa, mentre rientrava con la spesa insieme al suo coinquilino, un personaggio della palazzina, paffuto e gentile, che si fa chiamare ‘O Squalo.
Bella e fiera come i suoi avi. Zigomi alti e occhi leggermente incavati, profondi e neri. Non so nient’altro di lei se non quello che mi hanno detto gli occhi nei pochi secondi in cui ci siamo scambiati un saluto.
Vorrei sciogliermi. Farmi liquido. Farmi latte e caffè ed essere appiccicato solo per pochi istanti alle sue labbra mentre canticchia il giro di basso davanti allo specchio, aggiustandosi il risvoltino sui jeans aderenti e stretti, con la testa completamente assopita nell’immaginare l’intensa giornata che verrà: l’ora e tre quarti di lezione di sociologia del professor Gianchetti, la sua insopportabile tonalità di voce, le sue lente spiegazioni; la fila alla mensa Piovego; la cicca dopo il pessimo caffè in bicchiere di plastica della macchinetta.
Il cacacazzi con l’ukulele, fedele al ponticello di Porta Portello, che nel pomeriggio, appena passerà davanti ai tavolini del Trescalini, la tallonerà con resegante ossessione facendole perdere i primi cinque minuti dell’unica lezione interessante del semestre, quella di psicologia cognitiva della professoressa Raggi; la spilungona arrogante della biblioteca San Biagio, vicino a via Zabarella, che non la farà stare “fino alle sette” come scritto sul cartello in entrata ma le romperà le scatole dieci minuti prima perché, se non chiude in tempo, non arriva giusta per l’inizio delle lezioni di balli caraibici scontate del trenta percento a studenti e personale universitario al Cus.
Il ritorno a casa in bici, con la ruota dietro sgonfia e solo uno dei due freni funzionanti; l’odore di pollo arrosto della rosticceria a fianco alla stazione; il cavalcavia da affrontare con velocità e con il culo rigorosamente staccato dal sellino.
L’acqua della doccia piena di calcare e mai del tutto calda.
Sean Penn che, dal poster di this must be the place, proprio sopra la scrivania di fronte al letto, ad ogni tramonto la guarda rivestirsi.
L’affabile sensazione che le lascerà sulla pelle la camicia bordò da uomo di suo padre, gigantesca, che da tempo usa come pigiama.
La personale scaletta di film scaricati pur di non cadere anche lei nel terribile tranello delle serie tv; il cannone che ha riposto nel cassetto dentro il cofanetto in legno di Budva della nonna, e l’immagine di sua nonna mentre con cura ogni sera ci appoggiava la catenina d’oro e gli anelli d’argento opachi paragonata a lei che ogni sera si stacca una cima di in-door buonissima, pagata oro, che le farà accartocciare il cervello; il sorriso leggero comparso un attimo più tardi di questo pensiero; il suo intimo riflettere sui tempi che cambiano; la tisana limone e zenzero che si porterà fin sotto le coperte e che, insieme ad un paio di like notturni su facebook, le darà la buonanotte.
Ecco, i Talking Heads alle dieci del mattino servono a questo: a farti fumare in santa pace la canna delle undici e mezza di sera!